A volte un po’ di memoria topografica e giudiziaria farebbe davvero
bene al nostro Paese. L’A32, ad esempio, la tanto citata autostrada su
cui i manifestanti NO TAV continuano a fare pacifichi blocchi rimossi
dalle forze dell’ordine, va da Torino a Bardonecchia. Cioè dal capoluogo
di una delle regioni più importanti d’Italia a un piccolo comune di
3mila e 200 abitanti.
Ecco, quel piccolo comune – il più occidentale d’Italia – è stato il primo comune al di fuori del Meridione ad essere sciolto per infiltrazioni mafiose:
era il 1995. Ma i lunghi tentacoli della ‘ndrangheta avevano raggiunto
la Valle di Susa almeno da 4 decenni: da quando, cioè, a metà degli anni
’50 un giovane muratore originario di Marina di Gioiosa Ionica venne
mandato al confino da quelle parti. Si chiamava Rocco Lo Presti, e
nel giro di pochi anni assume sempre più la direzione del boom edilizio
che stava conoscendo la zona, costruendo case, palazzi e residence e
riuscendo a reclutare manodopera a basso prezzo.
Visto che s’era ambientato così bene, Lo Presti consigliò a suo cugino di trasferirsi a Bardonecchia. E così arriva anche Francesco Mazzaferro,
titolare di un’impresa di movimento terra che ottiene presto il
monopolio del settore nella zona che va da Bardonecchia a Sauze d’Oulx,
tanto che nei cantieri, secondo le cronache del tempo, si vedono solo
autocarri targati RC.
Negli anni, dopo qualche guaio con la giustizia - reclusione a causa
di un condanna per omicidio non confermata in appello -, Lo Presti
diventa un imprenditore coi fiocchi, un benefattore capace di dare
lavoro a migliaia di persone e di garantire investimenti faraonici. “Ha rappresentato un pezzo della storia economica dell’Alta Valle e della località olimpica”, scrive un giornale locale
in occasione della sua morte, avvenuta nel gennaio del 2009. Peccato
che pochi giorni prima, però, “zio Rocco” fosse stato condannato in via
definitiva per associazione mafiosa. Aveva infatti organizzato un racket delle braccia
che piaceva agli operai (perché veniva garantito loro un lavoro) e
soprattutto ai costruttori (che evitano così grane sindacali e
risparmiavano sui contributi). Un rapporto della Commissione
parlamentare antimafia, nientemeno che del 1974, evidenziò che “qualcosa
di nuovo, qualcosa di strano ha rotto l’equilibrio di sempre. Si sono
verificati fenomeni di delinquenza organizzata con caratteristiche del
mondo mafioso: massicci casi di intermediazione, collocazione abusiva,
sfruttamento e decurtazione salariale, racket”, e stimò che quasi l’80% della forza lavoro venisse reclutata attraverso canali illegali.
Perché una ‘ndrina calabrese riesce ad attecchire in maniera così
profonda in una regione straniera? Semplicemente perché è in grado di
gestire in maniera efficiente il mondo del lavoro locale, fatto di
appalti e di controllo della manodopera. E di lavoro, in quegli anni,
nei pressi di Bardonecchia ce n’è tantissimo: ottomila alloggi, per 1 milione e 20mila metri cubi di cemento,
vengono tirati su alla fine degli anni ’60, senza considerare tutte le
costruzioni abusive (stimabili in 2 mila unità). E poi quelli sono gli
anni della costruzione del traforo del Frejus: un investimento da 170 miliardi di lire
di allora (una situazione non diversa da quella che la Val di Susa sta
conoscendo oggi). Quest’improvvisa espansione edilizia portò
all’esaurimento della manodopera locale e all’impossibilità, da parte
delle piccole aziende di Bardonecchia, di intraprendere i lavori.
Ed è qui che entra in gioco la ‘ndrangheta: molte imprese cominciano ad arrivare dalla Calabria,
su consiglio di Lo Presti e di Mazzaferro, e si gettano a capofitto
sugli appalti, divenendone i padroni assoluti. In un verbale steso nel
1987 dagli ispettori inviati dal prefetto di Torino si legge: “tra la
cittadinanza di Bardonecchia è diffusa l’opinione che per intraprendere
in quel luogo una qualunque attività commerciale sia necessario il
parere favorevole del Lo Presti”.
Ovviamente, i metodi con cui la ‘ndrangheta si garantisce questo
dominio incontrollato sono quelli tipici della criminalità organizzata:
efficienza, controllo del territorio e ricorso alla violenza quando necessario. Tra il 1970 ed il 1983, la Procura della Repubblica di Torino registra infatti “44 omicidi di mafia”. Uno dei più eclatanti è quello di Bruno Caccia,
che quella Procura la dirige e che più volte ha indagato su Lo Presti.
La sera del 26 giugno del 1983, mentre porta a spasso il cane, il
procuratore viene affiancato da un’auto: viene trivellato di proiettili.
Il giorno stesso Lo Presti riceve un telefonata: “ecco il tuo regalo di
compleanno”. Violenze e intimidazioni continuano per tutti gli anni ’80
e ’90: nel 1991 il commissario di Bardonecchia viene trasferito
d’urgenza in Calabria, in un territorio ad alta intensità mafiosa.
Inizialmente non se ne capisce il motivo, poi si scopre che anche lui
stava facendo lo stesso errore di Caccia: indagava su Lo Presti.
Nell’ottobre del 1994 un componente della commissione edilizia di
Bardonecchia propone di aumentare gli oneri di urbanizzazione a carico
delle imprese edili. Quando torna a casa, trova un coltello conficcato
nel videoregistratore e si dimette, seduta stante, per “motivi di
salute”.
Lo Presti, insomma, diventa uno vero e proprio boss. E come ogni padrino che si rispetti, fonda il suo potere sulla certezza dell’impunità, che gli viene garantita dalla collusione di gran parte dei politici locali.
Il perché la politica non si opponga alle mafie è sempre lo stesso: le
cosche portano voti. E infatti Lo Presti si vanta a telefono – non
sapendo di essere intercettato – di controllare 500 preferenze a
Bardonecchia e di tenere in pugno la maggioranza dei consiglieri
comunali. Ad un giornalista di Repubblica che gli chiede se “c’è
qualcuno che controlla i voti a Bardonecchia”, il 6 ottobre del 1994
confessa: “Nessuna giunta viene eletta contro il parere dei meridionali.
Le posso dire che non ho bisogno di dire ai miei amici cosa devono
votare. Conoscono le mie idee e, se mi vogliono bene, sanno a chi dare
il voto”.
Nel 1994 il sindaco ed alcuni consiglieri comunali di Bardonecchia
vengono accusati di speculazione edilizia. L’indagine alza un gran
vespaio di polemiche, la stampa nazionale accende i riflettori su quel
piccolo comune della Val di Susa e vengono svelate le forti
infiltrazioni mafiose nella politica locale. L’anno dopo il Presidente
della Repubblica Scalfaro scioglie la giunta comunale, ma questo
non serve di certo a sradicare la mala pianta da Bardonecchia. Nel 1996,
la lista che aveva sostenuto l’ex sindaco fa una dura campagna
elettorale rivendicando orgogliosamente la forte continuità rispetto
all’amministrazione comunale precedente, e ottiene il 70% dei voti, col
sostegno trasversale dei partiti della sinistra e della destra.
Facciamo un salto di qualche anno e arriviamo al 9 gennaio 2008. A
Prascorsano, comune di 800 abitanti nella provincia di Torino, si
riuniscono alcuni ‘ndranghetisti per festeggiare il conferimento della
“dote di trequartino” a due affiliati del locale di Cuorgnè. A spiarli
ci sono le telecamere dei Carabinieri, nell’ambito di un’indagine durata oltre 5 anni che porterà nel giugno del 2011 all’operazione Minotauro.
Coordinati dal procuratore capo di Torino, Giancarlo Caselli, e di
Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, gli inquirenti arrestano 148 persone,
accusate di essere esponenti della ‘ndrangheta e di aver praticato voto
di scambio, con imputazioni aggiuntive che vanno dalla detenzione e
porto abusivo di armi al favoreggiamento di latitanti, dal traffico di
droga internazionale all’estorsione, dalle false fatturazioni a
finanziamenti illeciti, fino a ricettazione e truffa, con una confisca
di beni, mobili e immobili, per oltre 117 milioni.
Ad oggi, in Piemonte si ha conoscenza di almeno 15 locali di ‘ndrangheta attivi,
e dalle testimonianze di indagati o pentiti (pochissimi) si profila una
situazione inquietante: quello che accadeva a Bardonecchia negli anni
’70, cioè l’assoluto monopolio da parte delle ‘ndrine del mercato edile
ed il controllo dei voti, sembra ormai divenuto la norma a livello
regionale. Ecco cosa si legge in un’informativa dei Carabinieri di
Venaria, datata 7 aprile 2010: “un clima di violenza e di
intimidazione […] connota l’attività edile in questa particolare zona
dell’hinterland torinese, dove, al pari del cuorgnatese, la presenza cospicua di affiliati alla ‘ndrangheta ha reso di fatto impensabile lo svolgimento dell’attività edile senza dover corrispondere agli stessi costanti esborsi di denaro, per lo più destinati dagli affiliati al mantenimento dei carcerati”. E sarebbe in zone come queste che dovremmo aprire un cantiere mastodontico come quello del TAV?
Ma non è tutto. Ad Orbassano, alle amministrative del 2008 è stato
eletto consigliere comunale nella lista del Pdl Luca Catalano, nipote di
quel Giuseppe Catalano ritenuto dalla procura il capo
del locale di Siderno nel capoluogo piemontese. Altri comuni tra il
torinese e la Valle di Susa sotto il controllo delle ‘ndrine sono,
secondo la Dda di Torino, Grugliasco, Collegno, Settimo Torinese,
Vinovo, Nichelino, Moncalieri, Cintano, Borgaro Torinese, Volpiano,
Borgone di Susa.
Beppe Grillo l’altro giorno si chiedeva chi ci sia dietro il TAV, e
perché partiti di maggioranza e di opposizione, governi tecnici o
politici, non osino dire una parola contro quest’opera inutile e
costosa. Siamo sicuri che la risposta sia davvero così difficile da
trovare?
Fonte.
Eccole qui, servite su un piatto d'argento le fondamenta su cui posano le basi dello sviluppo nazionale.
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