Il Movimento No TAV, attivo almeno fin dai tempi della grande
manifestazione a Sant’Ambrogio di Torino del 2 marzo 1995, ha più di una
buona ragione per contestare la realizzazione della grande opera
ferroviaria che dovrebbe attraversare la Val di Susa collegando Torino a
Lione, all’interno di un più esteso colegamento da Lisbona a Kiev.
Troppo lunghi e costosi sarebbero ad esempio i lavori del cantiere, tali
da sottrarre al paese risorse preziose che certamente risulterebbero
meglio investite nell’ammodernamento delle linee esistenti (a cominciare
dalla linea Torino – Lione che attraversa il Traforo del Frejus e che
ad oggi viene utilizzata non oltre il 30% delle sue capacità: per il
trasporto merci, quindi, la TAV si presenterebbe come un costoso ed
inutile doppione). Ingenti sarebbero anche i danni all’ambiente, con
gravi effetti sulle condizioni idrogeologiche della valle come del resto
è già avvenuto con i lavori per l’alta velocità nel Mugello, dove
interi paesi sono rimasti senz’acqua a causa del disseccamento delle
falde.
Non mancherebbero poi preoccupazioni su problemi di salute pubblica
legati ad una serie di minerali presenti nelle montagne circostanti
(principalmente amianto ed uranio) le cui scorie e la cui radioattività,
a causa dei forti venti che caratterizzano la Val di Susa, potrebbero
raggiungere persino la periferia di Torino. Infine una linea come la TAV
favorirebbe, nell’ottica del mercato comunitario, l’esportazione di
capitale produttivo verso le aree più povere dell’Unione Europea e
l’importazione di merci a basso costo dalle medesime, assecondando così
la deindustrializzazione e la delocalizzazione di imprese del nostro
Paese verso l’Europa orientale e, di conseguenza, anche la compressione
dei salari dei nostri lavoratori.
Ma queste ragioni, tutte condivisibili e difficilmente obiettabili, sono
soltanto quelle più note ed ufficiali: ve ne è anche un’altra, al cui
proposito l’opinione pubblica viene tenuta accortamente all’oscuro e di
cui ci ccuperemo in questo articolo. La TAV, esattamente come la
ferrovia Berlino – Baghdad dell’inizio del secolo scorso (la cui
funzione era quella di favorire la penetrazione militare ed economica
della Germania guglielmina nei Balcani e nel Medio Oriente di cui già
all’epoca s’era scoperto il potenziale petrolifero), risponde a ben
precise logiche geopolitiche e geostrategiche. Attraversando Portogallo,
Spagna, Francia, Italia, Slovenia, Ungheria ed Ucraina, favorirebbe il
collegamento e la saldatura fra Europa occidentale ed orientale,
consentendo così la penetrazione della NATO nello spazio post sovietico.
Non è certo un mistero che Kiev rappresenti solo il terminale momentaneo
di questa enorme infrastruttura per la quale già si teorizzano
ulteriori prolungamenti verso la Crimea, il Caucaso e la Russia
meridionale. Guardacaso proprio le aree su cui l’azione di
destabilizzazione e penetrazione militare e d’intelligence da parte
degli Stati Uniti, attraverso la leva costituita dall’Alleanza
Atlantica, è andata intensificandosi a partire dall’ultimo decennio. Gli
Stati Uniti ad oggi mantengono più di 100.000 uomini nel Vecchio
Continente allo scopo di assicurarvi il proprio controllo e soprattutto
per poterlo utilizzare come piattaforma da cui partire alla conquista
degli spazi circostanti, in primo luogo l’Africa ed il Medio Oriente
(per i quali, non a caso, nel 2008 è stato istituito il comando
tattico-operativo AFRICOM) e gli Stati dell’Europa orientale un tempo
alleati dell’URSS (Polonia, ex Cecoslovacchia, Ungheria, Romania e
Bulgaria) o addirittura parte di essa (Lituania, Estonia, Lettonia,
Ucraina, Georgia ed Azerbaigian). E’ un processo d’allargamento che si
basa sull’inserimento di questi Stati nel dispositivo politico e
militare della NATO, con relativa installazione nel loro territorio di
nuove basi militari americane. Per tale ragione il numero di militari
americani in Europa salirà, mentre parte di loro verranno sempre più
spostati ad Est e a Sud, verso la nuova frontiera.
Com’è ben noto, una delle principali ossessioni dei vertici militari e
degli strateghi statunitensi è costituita dalla logistica. Se guardiamo
alla storia militare degli Stati Uniti d’America, c’accorgeremo che
molti loro successi e del pari molti loro rovesci hanno spesso avuto più
di una ragione in difficoltà nel gestire la logistica o nelle debolezze
intrinseche a quest’ultima: pensiamo, per esempio, alle guerre di Corea
e del Vietnam. In questa loro corsa ad Est e a Sud, quindi, per gli
americani è vitale dotarsi di una logistica caratterizzata dai massimi
livelli d’efficienza e di velocità: le basi militari che
rappresenteranno i centri della colonizzazione delle nuove aree europee
ed extraeuropee, di conseguenza, dovranno essere collegate tra loro da
“linee ad alta velocità”. A livello italiano la TAV collegherebbe tra
loro l’aeroporto nucleare di Ghedi, il comando NATO del Garda e di
Verona (altro snodo cruciale non soltanto fra Europa orientale ed
occidentale, ma soprattutto tra Europa continentale e mediterranea,
ovvero corridoio preferenziale di collegamento tra il fronte meridionale
e la Germania, il paese dove la NATO e le forze americane sono presenti
in modo più massiccio), Camp Ederle di Vicenza, passando oltretutto in
prossimità delle basi di Istrana e di Aviano, superbase nucleare
collegata al Corridoio 5 attraverso un suo collegamento apposito. Ecco
che allora il Corridoio 5, la linea su cui andrebbe a correre la TAV,
permetterebbe un rapido movimento e trasporto di truppe e materiali
militari da Lisbona a Kiev e viceversa, verso mete ancora più lontane.
In Italia, solitamente, la mobilitazione popolare basta a bloccare o
quantomeno interrompere la realizzazione di tutte quelle “Grandi Opere” a
torto o ragione giudicate come discutibili, vuoi per ragioni economiche
o ambientali: è stato così col Ponte di Messina, col MOSE e persino col
progetto berlusconiano di ritorno al nucleare. Ma non è stato così con
l’alta velocità, né in Mugello (una linea ad alta velocità che colleghi
il Nord al Sud del Paese, sempre militarmente parlando, risulta
oltremodo strategica ed indispensabile alla NATO, che ottiene così la
possibilità di collegare Vicenza, Aviano, Verona e la Germania alle basi
militari come Livorno e ai comandi NATO quali Napoli e Taranto, dotati
di “giurisdizione” per l’intero Mediterraneo) né in Val di Susa, e men
che meno per la costruzione della base di Vicenza “Dal Molin”. In questi
casi, infatti, non sono in gioco i nostri interessi (l’interesse
nazionale, al quale si può anche rinunciare) ma quelli dei nostri
“padroni”. Padroni che intendono portare a casa determinati risultati,
costi quel che costi: se noi italiani vogliamo rinunciare al MOSE, sono
affari nostri; vorrà dire che per fronteggiare l’acqua alta a Venezia
c’inventeremo qualcos’altro. Ma che non ci venga in mente di dire di no
all’alta velocità: quella serve a Washington e Bruxelles, e di farla
saltare proprio non se ne parla. Come italiani, siamo liberissimi di far
affondare Venezia, ma non i piani d’espansione coloniale dei nostri
padroni d’oltre Oceano.
Fonte.
Una chiave di lettura inedita ed interessante degli interessi dietro le quinte della TAV, che tuttavia non riesco ad inquadrare chiaramente nella situazione odierna, in quanto sono privo degli strumenti per valutare coerentemente la strategia americana in Europa per questo nuovo secolo.
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