Di seguito riporto un approfondimento ai discorsi relativi all'uscita dell'Italia dall'Euro che ho iniziato a seguire con le interviste a
Claudio Borghi prima e
Alberto Bagnai poi.
Questa volta ho pescato il punto di vista critico di Emiliano Brancaccio che offre spunti di riflessione estremamente rilevanti anche se enunciati con un vocabolario prevalentemente di settore che non rende la sua trattazione estremamente fruibile, quanto meno in prima battuta. Ne consiglio in ogni caso l'attenta lettura perché, come sì dice si tratta di
tanta roba!
I miei ultimi interventi sulla crisi della zona euro hanno suscitato
alcune interessanti reazioni. Gli articoli e le interviste sulle
ambiguità di Syriza, sul fatto che
c’è modo e modo di abbandonare la moneta unica e sulla necessità che la sinistra inizi a dotarsi di una
exit strategy dall’euro hanno animato dibattiti ai quali hanno partecipato vari studiosi ed esponenti politici.
Il
segretario del PRC,
ad esempio, ha ritenuto opportuno criticarmi sostenendo che della
“bomba atomica” si può discutere solo dopo che sia esplosa, non prima.
Questo atteggiamento tattico è prevalente tra gli attuali esponenti
della sinistra, ma sembra trascurare un piccolo dettaglio: i tempi di
innesco e la specifica traiettoria della “bomba” in questione non
saranno affatto irrilevanti per i destini di coloro ai quali il PRC e il
resto della sinistra vorrebbero chiedere voti. Eludere la questione
sperando che nessuno si accorga dello stallo in cui versano le forze di
sinistra temo sia illusorio, e potrebbe compromettere persino obiettivi
modestissimi come la mera autoriproduzione di qualche residuo gruppo
dirigente.
Ma non è finita qui. Nel corso di un seminario organizzato pochi giorni fa dalla
Fondazione Di Vittorio e dall’ARS,
uno stimato collega economista, della scuola di Federico Caffé, si è
lanciato in un’animosa invettiva contro il sottoscritto. Il collega mi
ha sostanzialmente dato del “guerrafondaio” semplicemente perché ho
sostenuto che i tempi dovrebbero ritenersi maturi affinché le forze di
“sinistra” elaborino un autonomo punto di vista sulle diverse, possibili
modalità di deflagrazione dell’eurozona. Alla filippica del collega ho
quindi ritenuto necessario rispondere con la nota
Gli intellettuali “di sinistra” e la crisi della zona euro.
In essa ho sostenuto che, da un esame un po’ meno superficiale del
corso della Storia, non è difficile trarre la conclusione che proprio
una reiterata soggezione alla camicia di forza dell’attuale Unione
monetaria europea potrebbe render concreta, a un certo punto, l’agitata
minaccia di un’onda bellicista.
L’esperienza insegna, però, che i montanti possono sempre giungere
da entrambi i lati.
Laddove il suddetto economista mi ha additato come un irresponsabile
agitatore delle più nefande pulsioni guerresche, un altro collega invece
mi ha rimproverato di essere ancora troppo “timido” nei confronti della
prospettiva di un’uscita dall’euro. L’accusa di “timidezza” proviene da
un
post di Alberto Bagnai, docente di Politica economica presso l’Università di Chieti-Pescara e animatore del blog Goofynomics.
Una premessa: sono riconoscente a Bagnai per i suoi apprezzamenti verso la mia
attività di ricerca, in particolare per avere attribuito a un mio
paper
il merito di esser stato tra i primi, in Italia, ad avanzare una
critica alle tesi prevalenti di Blanchard, Giavazzi e altri sulla
sostenibilità degli squilibri delle partite correnti in seno
all’eurozona. In verità
Augusto Graziani,
prima di me e di altri, aveva già da tempo sollevato il problema. E’
vero tuttavia che fino a pochi anni fa la rilevanza di quegli squilibri
veniva ancora negata da molti, sia in ambito mainstream che eterodosso.
Se dunque oggi qualcuno mi attribuisce il merito di aver dato un piccolo
contribuito alla messa in discussione della vecchia vulgata, incasso e
ringrazio.
A sua volta, con Francesco Carlucci, Bagnai ha avuto la prontezza nel 2003 di pubblicare
una delle primissime stime
del moltiplicatore fiscale keynesiano per l’intera eurozona. A dirla
tutta, non essendo stati folgorati sulla via di Sraffa, Bagnai e
Carlucci adoperavano un modello che determinava l’equilibrio di “lungo
periodo” su basi neoclassiche. Ciò nonostante, in una fase storica in
cui ancora imperversavano le improbabili tesi sugli effetti espansivi
delle politiche restrittive, la loro stima ha avuto il merito di tener
viva l’attenzione sul problema keynesiano della domanda effettiva
adoperando strumenti sufficientemente
à la page. Di questo loro merito abbiamo dato conto anche nel nostro
libro.
Bagnai ha scritto altri ottimi contributi scientifici, ma ora mi
preme venire ai capi della sua accusa. In quel che segue eviterò di
badare ai toni delle sue imputazioni, in fin dei conti irrilevanti, e
vedrò di andare direttamente al sodo.
In primo luogo, non so se rassicuro Bagnai o rovino esteticamente il
suo presunto, splendido isolamento, ma credo sia utile ricordare un
fatto: a rigor di termini, e fino a prova contraria, gli economisti
italiani che sarebbero disposti a sostenere un’uscita dalla zona euro
sono quasi 300. Nel giugno 2010, quando Goofynomics non aveva ancora
emesso un vagito e l’eventualità di una deflagrazione era considerata a
dir poco lunare, la
Lettera degli economisti terminava con le seguenti parole:
“Qualora
le opportune pressioni che il Governo e i rappresentanti italiani delle
istituzioni dovranno esercitare in Europa non sortissero effetti, la
crisi della zona euro tenderà a intensificarsi e le forze politiche e le
autorità del nostro Paese potrebbero esser chiamate a compiere scelte
di politica economica tali da restituire all’Italia un’autonoma
prospettiva di sostegno dei mercati interni, dei redditi e
dell’occupazione”. Ricordo che questa frase finale suscitò
comprensibili preoccupazioni tra i colleghi promotori della Lettera. Ma
alla fine, grazie anche al sostegno di
Sergio Cesaratto,
insistemmo per inserirla nella stesura finale. Naturalmente, fu quella
la parte del testo che creò le maggiori perplessità tra i possibili
firmatari. Del resto, eravamo appena ai primordi della crisi greca e la
gravità estrema della situazione europea non era pienamente percepita
nemmeno tra gli economisti. Proprio a causa di quella frase, quindi,
probabilmente perdemmo per strada un candidato Nobel, alcuni economisti
di Bankitalia e vari altri autorevoli colleghi, pur simpatetici con la
nostra iniziativa. Qualche altro, forse, firmò senza leggere fino in
fondo (è il caso, temo, dell’economista che oggi mi accusa di fomentare
la guerra). Alla fine, però, le adesioni furono comunque numerosissime e
di notevole rilievo.
Come è noto, anche e soprattutto per quella dichiarazione finale, la
Lettera
si guadagnò tremendi strali di accuse da parte dei liberisti: per loro
eravamo come i nuovi barbari, malcelati nemici dell’integrazione
europea. Oggi i liberisti hanno abbassato un po’ la cresta e sui media
faticano un po’ di più a far passare le loro contraddittorie ricette. Di
converso, alla
Lettera del 2010 viene da più parti
riconosciuta una certa potenza profetica. Non siamo divenuti mainstream,
beninteso. Ma possiamo dire che quei 300 firmatari, per primi, si sono
presi la briga in Italia di dare un
pedigree all’ipotesi di sganciamento dall’euro, facendola uscire dal novero delle indicibili bestemmie.
A questo punto, anziché riconoscere che abbiamo spianato la via, Bagnai potrebbe solipsisticamente obiettare che nella
Lettera,
così come nel nostro libro, ci ostiniamo ad affiancare l’opzione di
uscita dall’euro a esercizi a suo avviso evocativi di una svolta europea
che non potrà mai giungere. Se così facesse, tuttavia, la sua posizione
diventerebbe immediatamente impolitica. Come abbiamo più volte
sottolineato nel nostro
libro,
sussitono motivi tangibili per sostenere che i portatori degli
interessi prevalenti in Germania hanno già messo in conto i costi di una
eventuale deflagrazione della zona euro. La sola eventualità che essi
temono è la messa in discussione non solo dell’euro ma anche della
libera circolazione dei capitali e delle merci in Europa. Dunque, un
modo per smuovere il quadro politico in Germania esiste: esso può essere
riassunto nell’affermazione che
“se salta la moneta unica può saltare anche il mercato unico europeo”.
L’evocazione di una prospettiva neo-protezionista da parte dell’Italia e
degli altri paesi periferici costringerebbe i tedeschi a riformulare
l’analisi dei costi e dei benefici di una deflagrazione dell’Unione, e
potrebbe credibilmente riaprire la partita in sede europea (che ne pensa
Hollande? anziché acriticamente rallegrarsi per la loro vittoria,
questa è la prima vera domanda che bisognerebbe rivolgere ai socialisti
francesi). Naturalmente, fino a quando in Italia collocheremo a Palazzo
Chigi un irriducibile liberoscambista come il Professor Monti, i
“falchi” tedeschi si sentiranno garantiti e questa ipotesi politica non
potrà tradursi in un controfattuale. Si tratta però di una ipotesi
robusta, sulla quale sarebbe bene soffermarsi a ragionare (anche perché
potrebbe tornare utile in una seconda fase, come i più avveduti non
dovrebbero avere difficoltà a comprendere). Trascurarla in nome di un
purismo astratto significa condannarsi a un destino di emarginati con
la puzza sotto il naso, di tronfie cassandre tra quattro mura
domestiche che si accontenteranno di lamentarsi per l’ennesimo, nefasto
trionfo dei “liberoscambisti di sinistra”. Ma non credo sia questa
l’ambizione ultima di Goofy.
Infine, rilevo tre passaggi analitici del ragionamento di Bagnai che
trovo errati, e sui quali credo sia bene spendere qualche parola.
Innanzitutto, nella sua lettera a me indirizzata egli scrive:
“…per lunga esperienza di modellizzazione del commercio internazionale
colgo immediatamente il banale fatto che una svalutazione reale
competitiva è isomorfa all’imposizione di un dazio protettivo”.
Banale fatto? Può darsi che mi sbagli, ma intravedo un grave vizio
neoclassico in questa proposizione. Evidentemente i modelli cui Bagnai
si riferisce o sono fondati su un
ceteris paribus di tipo
marshalliano, oppure sono basati su assiomi in grado di determinare
esistenza, unicità e stabilità di un equilibrio generale di tipo
arrowiano. Al contrario, in uno schema di riproduzione, e nella realtà
dei fatti, non è per nulla garantito che una svalutazione sia
logicamente equivalente al protezionismo, né dal punto di vista della
scala, né della composizione, né della distribuzione del prodotto
sociale.
In secondo luogo, sugli effetti di una svalutazione sui salari reali e
sulla quota salari, posso sapere, di grazia, cosa dovrei farmene del
grafico di figura 7 riportato nella lettera d’amore-odio di Bagnai? Da
economista teorico lo chiedo, sommessamente, all’econometrico, il quale
sa di certo che da quella serie temporale non si può ricavare nulla che
possa vagamente somigliare a una conclusione valida in generale e per il
futuro. Cerchiamo allora di ragionare concentrandoci su un insieme di
dati più ampio, ma riferito al caso specifico della crisi di un regime
di cambi fissi, che è quello che ci interessa da vicino. Bagnai sa bene
che sussistono numerose evidenze del fatto che uno sganciamento da un
cambio fisso e una successiva svalutazione possono coincidere con una
riduzione dei salari reali e della quota salari tutt’altro che
trascurabili. Naturalmente, va ricordato che dal crollo dello SME al
1998 in Italia i salari reali rimasero quasi stazionari, e in Spagna e
Francia aumentarono persino leggermente (real compensation per employee,
dati Ameco). Ma bisogna anche tener presente che le quote salari di
quei paesi si ridussero in misura consistente: in Italia, in
particolare, la caduta fu pesantissima, dal 62% al 54% (adjusted wage
share, dati Ameco). Qualcuno forse ritiene che in fondo conti solo il
salario reale, e che la quota salari non sia importante? Spero che
nessuno si azzardi a pensarla in questi termini: la dinamica delle quote
distributive è forse l’indicatore chiave del cambiamento nella
struttura socio-politica di un paese. Il fatto che in Italia quel crollo
della quota salari sia avvenuto in concomitanza con una perniciosa
mutagenesi del ruolo del sindacato non è certo casuale. Per giunta,
tornando ai salari reali, si dovrebbe tener presente che l’arco
1992-1998 coincide in realtà con una transizione da un regime di cambi
fissi ad una ancor più stringente unione monetaria, per l’ingresso nella
quale si richiedeva una convergenza verso una nuova parità di cambio.
E’ evidente allora che l’inflazione fu contenuta anche in virtù di
quella convergenza! In una diversa situazione cosa potrebbe accadere?
Difficile a dirsi. Le evidenze di cui disponiamo danno i risultati più
disparati. Tra quelli meno piacevoli segnalo che nel 1994-1995, dopo i
deprezzamenti, Turchia, Messico e Argentina registrarono in un anno
cadute dei salari reali rispettivamente del 31%, 19% e del 5%, e che
dopo la svalutazione del 1998, in Indonesia, Corea del Sud e Tailandia
si verificarono diminuzioni dei salari reali del 44%, 10% e 6% (dati ILO
e World Bank). Intendiamoci, così come è sbagliato tralasciare gli
effetti sui salari, sarebbe un errore altrettanto ingenuo - o in
malafede - ritenere che l’uscita dall’euro implichi necessariamente
simili crolli. Tuttavia, se guardiamo non solo alla divergenza
accumulata ma anche a quella
prospettica
dei costi unitari del lavoro interni alla zona euro, sembra logico
prevedere che, dopo un eventuale sganciamento dall’euro, la dinamica
delle variabili monetarie sarebbe considerevole. Pertanto, a meno di
cadere nel
vizio di Blanchard
di considerare il markup come una variabile dipendente dalla sola
elasticità della domanda e insensibile alla dinamica delle variabili
monetarie, ho il forte sospetto che faremmo bene a cautelarci, esigendo:
1) una indicizzazione dei salari, 2) un ripristino dei controlli
amministrativi su alcuni prezzi “base” ed anche 3) una politica di
limitazione degli scambi che ci aiuti a governare meglio le fluttuazioni
delle valute. Chi si ostina a eludere questo problema deve capire che
così non aiuta la transizione ma la ostacola.
Infine, è evidente che dentro la zona euro il valore relativo dei
capitali nazionali dei paesi periferici declina, ma per quale motivo
questa ovvietà dovrebbe esimerci dall’esaminare l’effetto ulteriore e
accelerato che una svalutazione avrebbe su quel valore? Solo una
sindrome
à la Eugene Fama potrebbe indurci a ritenere che i
prezzi correnti abbiano già pienamente scontato la svalutazione futura!
In realtà, l’ampia letteratura sui “fire sales” segnala che il
deprezzamento del cambio in genere implica una ulteriore caduta ex-post
dei prezzi degli assets. Per questo, occorre mettere in chiaro che un
eventuale sganciamento dall’euro deve essere immediatamente affiancato
da vincoli alle acquisizioni estere, in campo sia bancario che
industriale. La sequenza del 1992, in cui svalutazione, privatizzazioni e
dismissioni all’estero furono legate da una precisa catena logica,
dovrebbe averci insegnato qualcosa, spero. Ancora una volta, chi gioca a
sostenere che “possiamo far saltare la moneta unica” e poi il resto si
vede, non ha capito niente. Io però confido che Goofy capisca.
Intendiamoci: come ho ripetuto anche di recente in una conversazione con Salvatore Bragantini e Mario Pianta pubblicata
sull’ultimo numero di Micromega,
personalmente continuo a ritenere che la “sinistra” sia in tremendo
ritardo rispetto al precipitare degli eventi. La conseguenza più
probabile è che
altri
arriveranno per primi al nodo delle questioni e che i lavoratori
subordinati, senza adeguate rappresentanze, assumeranno il classico
ruolo di variabile residuale del sistema. Ciò nonostante, occorre
insistere. Per questo, vorrei suggerire la lettura, in questo
volume,
di un breve saggio del collega Sergio Levrero. Non lo condivido
interamente ma a livello divulgativo mi sembra una possibile base di
partenza per iniziare a ragionare intorno a possibili exit strategies
declinate “a sinistra”.
Emiliano Brancaccio
P.S.
Come avevamo osato sospettare,
a quanto pare l’annuncio della mirabile vittoria di Monti in materia di
fondo salva-stati era appena un tantino pompato. Presumo dunque che
svariati banchieri, in questo momento, stiano augurando una estate ricca
di soddisfazioni a George Soros. Buona estate e buona fortuna anche a
tutti noi.
Fonte