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18/08/2015

Libia - Perse le tracce dei militari libici addestrati in Europa e Usa

Mentre rullano i tamburi (e le campagne mediatiche ad hoc) per un nuovo intervento militare delle potenze Nato in Libia, in molti sembrano fare i finti tonti su una denuncia di due settimane fa del Washington Post. Il quotidiano statunitense segnalava in un servizio del 5 agosto come migliaia di libici che Usa ed Unione Europea hanno addestrato dopo aver deposto con la forza Gheddafi, siano “scomparsi”, con il serio dubbio che stiano mettendo a frutto l’addestramento ottenuto militando però nelle milizie che le truppe occidentali si troverebbero ad affrontare sul territorio libico qualora passassero dai bombardamenti all’intervento terrestre.

L’inchiesta del Washigton Post ha svelato come si sia persa ogni traccia delle reclute libiche addestrate in Occidente fra il 2013 e il 2014 a sostegno del governo dell’allora premier Ali Zeidan. Gli Stati Uniti hanno ammesso la “dispersione dello sforzo” di addestrare battaglioni libici di cui si è persa ogni traccia. Centinaia di reclute sono state addestrate da consiglieri militari americani in Bulgaria, mentre dei 300 soldati di Tripoli in Gran Bretagna un terzo è stato rimpatriato dopo poche settimane per indisciplina, violenze e abusi sessuali mentre molti altri hanno chiesto asilo a Londra per non tornare in patria. Del migliaio di reclute libiche inviate in Turchia la metà se ne sono andate prima di aver completato la prima fase dell’addestramento.

Ma anche l’Italia aveva partecipato ai programmi addestrativi con l’Operazione Coorte che aveva portato tra gennaio e aprile del 2014, presso l’80° reggimento addestramento volontari di Cassino, 341 reclute libiche (16 ufficiali, 18 sottufficiali e 307 militari) provenienti in maggior parte dalla Cirenaica, a svolgere un corso di 14 settimane di addestramento per la fanteria.

Il programma messo a punto dal G8 prevedeva l’addestramento di ben 15 mila militari (2.000 in Italia e Regno Unito, 3.000 in Turchia mentre in  Bulgaria gli americani prevedevano di addestrare ben 8 mila libici) ma è naufragato nel nulla per carenza e scarsa motivazione delle reclute nonché assenza di coordinamento con i vertici militari di Tripoli, rivelatisi interlocutori inaffidabili.

“La Libia si era impegnata a rimborsare i costi del programma addestrativo (600 milioni di dollari) ma in realtà ha pagato solo poche centinaia di migliaia di dollari, con forte ritardo e fonti italiane fanno sapere che a Roma non è arrivato un euro” riferisce il sito specializzato Analisidifesa.it

Ma il problema più serio che viene segnalato è che tra le molte reclute disperse non si può escludere il rischio che tra i militari addestrati dagli Occidentali vi sia chi combatte oggi nelle milizie tribali o in quelle islamiste come Ansar al-Sharia e Stato Islamico. Cioè quelle milizie che le truppe degli Usa e dell’Unione Europea – con il documento approvato ieri su sollecitazione dell’Italia – hanno annunciato di voler combattere. “L’accordo per un governo nazionale in Libia resta la sola possibilità – ha dichiarato il ministro Gentiloni – affinché con il supporto della comunità internazionale si possa far fronte alla violenza estremista e al peggioramento quotidiano della situazione umanitaria ed economica del Paese”.

Ma, come scrive il Corriere della Sera, le parole del ministro Gentiloni “sembrano preludere proprio a una fase 2, fase che fra i primi atti vedrebbe una richiesta formale del nuovo governo libico di aiuti internazionali di stabilizzazione del Paese, oltre alla richiesta di revocare le sanzioni di carattere militare”. Ecco dunque la vera regola d’ingaggio su cui intendersi: la stabilizzazione della Libia.

Un analista serio come Alberto Negri lo chiarisce bene sul Sole 24 Ore (vedi sotto), quando afferma che “Se si interviene in Libia questa volta non si può sbagliare” come invece è accaduto con l’aggressione del 2011. E se si interviene, non sarà possibile cavarsela con i bombardamenti aerei: “in trent’anni di guerre in Medio Oriente e nel Levante non si è mai visto nessuno vincere una guerra da lontano. Come del resto se ne sono perse anche mettendo gli stivali sul terreno”.

Insomma, anche alla luce dell'inchiesta del Washington Post sui militari libici "dispersi" dopo l'addestramento, l'impressione che la Libia possa rivelarsi un sanguinoso pantano diventa più forte di giorno in giorno.

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Se si interviene non si può sbagliare più

Da Il Sole 24 Ore, Alberto Negri, 18 agosto 2015

Se si deve intervenire in Libia, per frenare una deriva “alla somala” come dice il ministro degli Esteri Gentiloni, questa volta non si può sbagliare. Prima dei raid aerei occidentali nel 2011 promossi dalla Francia di Sarkozy, la guerra civile libica era sul punto di concludersi con un costo complessivo di circa mille vite umane: alla fine se ne contarono almeno 30mila, gli occidentali fecero le valigie, l’Onu si rivelò come al solito una macchina inefficace e la Libia venne abbandonata al suo destino, sperando, non si sa sulla base di quali ipotesi, che diventasse una stabile democrazia.

Gli appelli non bastano. In un nota diffusa dalla Farnesina i governi di Francia, Germania, Italia, Spagna, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno condannato ieri gli atti barbarici dell’Isis a Sirte ma non sembra che si siano molto impegnati per evitare il disastro, affidandosi a un’esangue mediazione dell’Onu, senza neppure prevedere di bloccare i fondi alle fazioni erogati dalla Banca centrale libica in esilio a Malta, l’unica leva per convincere i riottosi esponenti di una Libia di milizie, tribù e cacicchi islamici.

Non solo i libici hanno dimostrato di non sapersi governare da soli ma il sedicente governo di Tobruk, benché riconosciuto dalla comunità internazionale, non ha saputo fare di meglio che affidarsi agli egiziani e al generale Khalifa Haftar che per la verità è assai in difficoltà e non appare quel fulmine di guerra contrabbandato dai media. Non è riuscito a conquistare Bengasi, la città più importante della Cirenaica, e si trova a confinare sulla Sirte con il Califfato.

La colpa, dicono quelli di Tobruk, è dell’embargo che impedisce nel Paese l’afflusso di armi: eppure di armi la Libia sembra piena, tra quelle che provengono dagli arsenali di Gheddafi e quelle arrivate dopo. In realtà manca l’esercito, già poco strutturato se non assente ai tempi di Gheddafi e che oggi appare un aggregato evanescente di miliziani. L’addestramento l’avrebbero dovuto fare le potenze occidentali tra cui l’Italia: si partì tra squilli di tromba e poi non se ne è saputo più nulla. Come potesse reggersi un Paese vasto come la Libia e controllare i suoi confini senza un esercito e forze di polizia adeguate appare incomprensibile: crollato il regime del Colonnello era chiaro che le frontiere di sabbia della Libia sarebbero sprofondate nel Sahara.

È lo stesso errore che fecero gli americani nel 2003 quando bombardarono Saddam Hussein e poi decisero di sciogliere le forze armate irachene. Le conseguenze di quella iniziativa dovuta al proconsole americano Paul Bremer sono ancora oggi sotto gli occhi di tutti: le forze armate di Baghdad non sono capaci di sostenere la guerra all’Isis per cui devono ricorrere ai raid della coalizione americana, ai marines come consiglieri sul campo, alle milizie sciite filo-iraniane e ai curdi, Pkk compreso, un fanteria anti-Califfato che l’Occidente ha lasciato alle vendette di Erdogan senza neppure un moto di vergogna.

Il governo di Tobruk chiederà alla Lega Araba di essere aiutato a bombardare i jihadisti della Sirte: in mancanza di un intervento europeo può essere una via di uscita per evitare un impegno occidentale immediato. Si guadagna un po’ di tempo davanti all’opinione pubblica, nella speranza che i governi di Tripoli e di Tobruk si mettano finalmente d’accordo. Ma aspettarsi soluzioni dai Paesi della Lega Araba è una scommessa: alcuni come l’Egitto sono direttamente coinvolti nei tentativi di spartizione del Paese in zone di influenza, altri in un passato assai recente sono stati sostenitori proprio dei jihadisti. La Libia inoltre confina con la Tunisia, sotto attacco dei miliziani della jihad che sono stati sostenuti da Paesi interessati alla destabilizzazione dell’unico esperimento democratico uscito quasi indenne dalla cosiddette primavere arabe.

Ma forse l’Europa pensa di potere controllare o limitare la disgregazione libica e i flussi dei migranti con missioni dal mare e dal cielo. Può darsi, anche se in trent’anni di guerre in Medio Oriente e nel Levante non si è mai visto nessuno vincere una guerra da lontano. Come del resto se ne sono perse anche mettendo gli stivali sul terreno. I migranti sono gli ostaggi di questa situazione: manovrati non soltanto per guadagnare denaro ma anche come un’arma. Non solo dagli scafisti libici: basta guardare le migliaia di siriani arrivati nell’isola di Kos. Fino a poco tempo fa l’ineffabile Erdogan pensava di usarli nella battaglia contro Assad, adesso ha cambiato idea e li scarica nell’Egeo. Anche questo oggi è un modo di fare la guerra nel Mediterraneo.

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