Pensavate di esservi tolti dai piedi il terribile Wolfgang Schaeuble, eh? Il terribile cerbero dell’austerità ordoliberista di matrice teutonica che da ministro delle Finanze – e dunque membro guida dell’Eurogruppo – era arrivato a teorizzare che “non si può assolutamente permettere ad un’elezione di cambiare nulla. Perché abbiamo elezioni ogni giorno, siamo in 19, se ogni volta che c’è una elezione e qualcosa è cambiato, i contratti tra noi non significherebbero nulla”...
Pensavate che ormai, dopo la nomina a presidente del Bundestag, avesse ormai raggiunto la pace dei sensi, moderando con il ruolo istituzionale il carattere imperialistico-aggressivo che lo connota da sempre...
E invece no. Lui vigila sempre, cercando l’occasione giusta per bastonare “le cicale” dell’Europa Mediterranea, che portano la colpa (schuld) di non ridurre il loro enorme debito (schuld).
Milano Finanza, meritoriamente anche se mossa da altre ragioni, informa che l’inesauribile Schaeuble “ha chiesto informazioni alla Bce sulle banche italiane”. L’iniziativa sarebbe già abbastanza singolare (un parlamento nazionale che si preoccupa delle banche di un altro paese), tanto più che i dati relativi all’esposizione delle banche italiane sui titoli di Stato di questo paese sono pubblici e consultabili da chiunque.
A colpire sono però le altre “richieste”, sicuramente più invasive o “irrituali”. “In quale modo gli aumenti dei tassi siano incorporati negli stress test” (le simulazioni condotte per verificare il grado di tenuta dei singoli istituti bancari di fronte a eventi eccezionali), e addirittura se negli scenari delineati fosse compresa anche l’uscita dell’Italia dall’euro.
Fino ad arrivare a domande strettamente tecniche come “il tasso al quale le banche sarebbero dichiarate in dissesto o a rischio di dissesto”, fino a costituire una “minaccia sistemica” alla stabilità finanziaria del Vecchio Continente.
A rispondere (è passato quasi un mese dall’invio della lettera a Francoforte) è stata la diretta interessata, la responsabile della Vigilanza della Bce, Danièle Nouy, barcamenandosi tra regole che certamente Schaeuble conosce (“le linee guida Eba per decidere se una banca è in dissesto o pre-dissesto”), e altro che non può ignorare (“dato il numero di fattori da considerare non è possibile determinare ex ante un livello di rendimento dei titoli di Stato in cui le banche fallirebbero o rischierebbero di fallire o sarebbero una minaccia per la stabilità finanziaria”).
Domande niente affatto innocenti, come si vede, perché incarnano l’ossessione tedesca per considerare “pericolosi” soltanto i titoli di Stato detenuti dalla banche (il primo compratore di Bot e Cct), ossia il debito pubblico italiano, spagnolo, greco, ecc.
Ogni addetto ai lavori finanziari sa però che ci sono anche altri pericoli – ben più gravi come dimensioni monetarie – che gravano sulla “stabilità del sistema”. Ad esempio i prodotti finanziari derivati, che costituiscono grande parte degli attivi in cassaforte presso le banche di Berlino, a cominciare soprattutto da Deutsche Bank. Quei titoli, a partire dalla crisi esplosa nel 2007 e diventata globale con il fallimento di Lehmann Brothers nel 2008, sono spesso oggi “illiquidi”. Tradotto: non si possono vendere perché nessuno se li compra. Sono carta straccia, anzi righe di codice su dei computer, inseriti tra gli “attivi” delle banche, dotati di un “valore figurativo” altissimo ma che – a scadenza – dovranno per forza essere iscritti tra le perdite. Perché valgono zero.
A volerla mettere sul nazionalistico, Milano Finanza giustamente si chiede come verrebbe presa, in Germania, l’iniziativa di qualche parlamentare italiano che volesse “far domande alla Bce sui punti di debolezza delle banche tedesche, anche per stimolare un’ulteriore riduzione dei loro rischi, prima che siano condivisi tra tutti i paesi dell’Eurozona”.
L’eventualità – lo diciamo noi – è solo teorica; la risposta della Bce sarebbe sprezzante e quella tedesca feroce. Perché l’Unione Europea, e dunque anche la Bce, non è affatto quella “comunità di intenti” che realizza il benessere di tutti i cittadini entro i suoi confini. Ma soltanto il sistema di trattati che consente ai gruppi multinazionali più forti – finanziari e non – di imporre i propri interessi come egemoni. Per farlo hanno bisogno di un “paese forte”, che concorra a determinare le linee guida di una competizione interna che non fa prigionieri.
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