Al vertice Nato si discute animatamente l’aumento delle spese militari. Fino a ieri la soglia da raggiungere era quella del 2% del Pil (che solo Gran Bretagna, Polonia, Estonia e, paradossalmente, la Grecia raggiungono). Poi Trump ha sparigliato e “destabilizzato” i partner europei alzando l’asticella al 4% (come riferiamo in altra parte del giornale).
Sul raggiungimento della quota del 2% del Pil per le spese militari (per l’Italia si tratterebbe di una sommetta di 37 miliardi), i leader europei si stanno ingegnando con una serie di trucchi, anche perché per i 22 paesi aderenti si tratterebbe di sborsare almeno 96 miliardi in più all’anno.
Il quotidiano La Stampa riferisce che la Germania, per non guastare i rapporti con Trump, starebbe pensando di comprare un grosso lotto di cacciabombardieri americani F-35. Si tratterebbe di ottantacinque o novanta aerei che andrebbero a sostituire i vecchi cacciabombardieri Tornado. Una scelta politica più che economica, perché l’alternativa più coerente sarebbe quella di sostituire i vecchi Tornado con il caccia di ultima generazione Eurofighter Typhoon, frutto della collaborazione industriale di Germania, Gran Bretagna, Italia e Spagna.
Ma non è solo la Germania a ricorrere ai trucchi. Il ministro della Difesa Elisabetta Trenta, a nome del governo italiano, ha chiesto ad esempio che gli investimenti italiani per la sicurezza cibernetica a livello nazionale vengano compresi nel calcolo del 2% del Pil per la spesa militare.
“Anche gli investimenti per assicurare la resilienza cibernetica a livello nazionale devono essere comprese nel 2% del Pil che i paesi della Nato hanno deciso di riservare alle spese per la difesa. Si tratta – ha detto Trenta secondo fonti del Ministero – di un investimento che riguarda il settore civile oltre a quello militare e il nostro obiettivo è che nel 2% siano contabilizzati gli sforzi italiani nel rafforzare la propria sicurezza interna”. Nel frattempo il nuovo governo italiano sta procedendo all’acquisto dei caccia statunitensi F-35, in coerenza con gli impegni presi dai governi precedenti di centro-destra e centro-sinistra ma in contrasto con le posizioni dichiarate dal M5S (ma anche dal Pd) negli anni precedenti.
Gli otto F-35 prenotati si vanno a sommare a quelli già acquistati dalla Difesa, per un totale di 26. Complessivamente il programma, una volta completato, vedrà l’Italia dotarsi di 90 nuovi aerei per un costo totale di circa 14 miliardi di euro.
La ministra Trenta ha provato a ridimensionare la notizia. “Siamo sempre stati critici nei confronti del programma, nessuno lo nasconde. Proprio per questo non compreremo nuovi caccia e, alla luce dei contratti in essere già siglati dal precedente esecutivo, stiamo portando avanti un’attenta valutazione che tenga esclusivamente conto dell’interesse nazionale”.
In una trasmissione televisiva la ministra della Difesa aveva sottolineato che “Se decidessimo di tagliare ci sarebbero delle forti penali da pagare. Bisogna anche considerare che intorno agli F-35 c’è un indotto di natura tecnologica, ci sono progetti di ricerca e un problema occupazionale. Quindi ribadisco che bisogna valutare bene quanto ci costa tagliare e quanto ci costa invece mantenere”. Ma sulla questione delle penali da pagare, una relazione della Corte dei Conti smentisce tale ipotesi.
Occorre rammentare che nel settembre 2014 la Camera dei Deputati votò una mozione presentata dal Partito Democratico che impegnava il governo Renzi a tagliare del 50% il finanziamento complessivo del programma di acquisto degli F-35. La mozione venne approvata ma non ebbe alcun seguito.
Uno dei principali leader del M5S Alessandro Di Battista, allora definì quello degli F35 “un programma fallimentare” aggiungendo che “chi ci ha fatto entrare in questo programma dovrebbe essere preso a calci in culo”. E qui i calci in culo potrebbero essere distribuiti in modo correttamente bipartisan. Infatti la decisione di entrare nel programma di acquisto degli F-35 era stata presa dal governo Berlusconi nel 2002. Ma gli accordi operativi per la produzione e la costruzione della fabbrica italiana di assemblaggio degli F-35 sono opera del governo Prodi nel febbraio 2007 e nell’aprile 2008.
Adesso però occorre separare le parole dai fatti. Rimanere nella Nato significa aumentare enormemente le spese militari, sia acquistando gli F-35 che gli Eurofighter o rafforzando la cybersicurezza. E’ quindi una decisione di valore strategico e “morale”. Se si accetta questa logica non c’è scampo. Se si vuole dare un segnale diverso occorre mandare alla Nato e a Bruxelles un segnale diverso: tagliare le spese militari per recuperare risorse da destinare alla spesa sociale.
Stoppare la crescente e preoccupante corsa agli armamenti, come direbbe Brecht, “è una cosa semplice difficile a farsi”, ma se si vuole governare diversamente, le cose non possono che essere più difficili che continuare a fare ciò hanno fatto i governi precedenti. Altrimenti i “calci di culo” evocati dal Dibba dovranno essere anche auto-inflitti.
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