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12/03/2019

L’eterno ritorno della sindrome del Faust

Davvero sbalorditiva l’intervista di H. W. Sinn – uno dei decani degli economisti tedeschi – rilasciata l’altro giorno al quotidiano economico Handelsblatt. L’oggetto dell’intervista era il noto studio del CEP di Friburgo che sostiene che i due paesi che hanno subito le più grandi perdite dall’introduzione dell’Euro sono l’Italia e la Francia mentre i paesi che hanno tratto maggiori benefici sono la Germania e l’Olanda.

La tesi sostenuta dall’insigne economista tedesco non nega quanto lo studio ha sostenuto, evidentemente ritenendolo corretto e non soggetto a possibili contestazioni. Però sostiene bizzarramente che nonostante tutto questo la Germania non ne ha tratto beneficio reale. Ripropongo le sue parole che mi paiono alquanto emblematiche (anche di una certa forma mentis – absit iniuria verbis – teutonica):
“Il problema è che le esportazioni, nel calcolo del PIL, sono considerate come un indice di prosperità, anche se in realtà lo diventano solo nel momento in cui sarà certo che immediatamente o successivamente potranno essere convertite in importazioni per una somma di pari valore. In effetti le eccedenze commerciali tedesche non sono sempre state investite in maniera ragionevole, e spesso sono state utilizzate per acquistare titoli di debito esteri alquanto problematici. Una parte di questi titoli consisteva in obbligazioni di dubbia utilità, in gran parte di provenienza americana, il cui mancato rimborso ha contribuito al fatto che la Germania abbia dovuto cancellare centinaia di miliardi di euro di crediti esteri dal suo bilancio delle attività nette sull’estero.”
Insomma, per Sinn è vero, la Germania grazie al feroce meccanismo dell’Euro (inibizione del meccanismo di mercato delle fluttuazioni di cambio, rigore fiscale grazie a Maastricht e Fiscal Compact, introduzione del delirante concetto di output gap) è riuscita a guadagnare enormi flussi finanziari fatti dalle gigantesche eccedenze commerciali, ma in fondo i tedeschi non ci hanno guadagnato perché non ne hanno goduto i frutti a causa dei cattivi investimenti in titoli USA che sono letteralmente carta straccia. Di primo istinto, da buoni mediterranei di cultura cattolica, verrebbe da dire che la farina del diavolo se ne va in crusca; per non parlare poi del fatto che sostenere che i tedeschi, dall’infernale trappola dell’Euro non ci hanno guadagnato perché hanno investito male, è come dire che un rapinatore non ha rapinato perché si è dimenticato la valigia con il bottino nell'auto con cui è scappato.

Ma, lasciando perdere questi aspetti un po’ moralistici, ci sono altre considerazioni da fare. Primo, mi pare corretto domandarsi se i tedeschi stiano continuando a imporre la sferza (peraltro precipitandoci in un enorme crisi di innovazione a causa dello “sparagno”, e di cui pagheremo il prezzo nei prossimi decenni) nella speranza di recuperare quanto incautamente perso (oltre che ingiustamente guadagnato).

In secondo luogo, nell’affermazione di Sinn salta all’occhio un non detto: dove sono queste centinaia di miliardi di titoli USA che valgono quanto la carta da parati? Posto che nel bilancio dello Stato non ci sono perché se ne avrebbe l’evidenza; posto che nel cassetto del birraio tirolese è difficile che ci siano, mi viene da pensare che si trovino ben custoditi nei bilanci delle banche tedesche. E infatti se così fosse si spiegherebbe come mai – nonostante dovrebbero scoppiare di soldi – banche come Deutsche Bank e Commerzbank vivono gravissime difficoltà da anni.

Se non fossero tedeschi, comunque, si siederebbero assieme ai partner europei e spiegherebbero la situazione per trovare un accomodamento. E invece niente, combattono fino all’ultima pallottola e a sconfitta certa. Trascinandosi appresso tutta Europa, ovviamente.

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