Il 28 febbraio del 2018, a soli quattro giorni dalle elezioni, l’allora Presidente del consiglio Paolo Gentiloni, a Camere sciolte e dunque formalmente incaricato del semplice disbrigo degli affari correnti, siglava il preaccordo con le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna per la cosiddetta “Autonomia differenziata”, ossia l’annessione definitiva delle competenze legislative su alcune materie – come istruzione, tutela dell’ambiente, della salute e del lavoro, rapporti con l’Ue – da parte delle Regioni coinvolte a discapito dello Stato.
In breve, con l'autonomia differenziata si intende la possibilità da parte delle tre regioni più ricche d'Italia di trattenere e gestire una quota maggiore del gettito fiscale generato nei propri territori. Come sottolineato da più parti, la riduzione delle imposte a disposizione dello Stato porrebbe definitivamente la parola fine, venendo meno la condizione di redistribuzione solidale della ricchezza, alle possibilità di riduzione del gap che storicamente affligge le regioni del Mezzogiorno nei confronti di quelle de centro-nord del paese.
Tenendo per un momento da parte i rischi connessi a un’iniziativa del genere, per ora ciò che qui interessa è che le regioni menzionate, almeno nella storia della Repubblica, sono state caratterizzate da sviluppi e fortune differenti senza che questo, evidentemente, ne impedisca oggi una convergenza politico-programmatica. Un breve sguardo a questo e alla situazione odierna potrebbe aiutare nella comprensione della fase attuale che attraversa il paese, sempre considerando il perimetro dell’Ue.
Lo sviluppo industriale della Lombardia, che assieme al Piemonte e alla Liguria formava il famoso “triangolo industriale”, si è affermato perlopiù fuori dall’ombrello protezionista dello Stato italiano. A differenze delle altre due, qui gli aiuti statali sono stati minori, lasciando così spazio al protagonismo della struttura finanziaria (privata) delle banche, soprattutto milanesi. La minor dipendenza dai finanziamenti pubblici, sommata a una forte vocazione sia all’esportazione delle aziende più all’avanguardia, sia alla compenetrazione tra le varie imprese sparse nel territorio, ha rappresentato una sorta di cuscinetto salvavita una volta venuto meno il ruolo dello Stato con la svolta neoliberale e la quasi contemporanea accelerazione del processo di integrazione europea con la fine dell’era fordista e l’avanzare della globalizzazione. Non è stato così per la Liguria, oramai regione postindustriale (nonostante il porto di Genova) votata al settore terziario, né per il Piemonte del “dopo-Fiat”.
Per quanto riguarda l’industria veneta, la storica affiliazione ai flussi statali di marca democristiana ha permesso la trasformazione della struttura produttiva regionale in un pullulare di distretti industriali, fortemente specializzati e orientati anch’essi all’esportazione, organizzati secondo una logica di filiera “interna” alla regione stessa, che hanno saputo sfruttare il posizionamento geografico volto “naturalmente” all’aggancio con la l’Europa continentale “profonda” – elemento di nuovo decisivo una volta che il modello export-led si è/ è stato imposto in tutto il Vecchio continente.
In maniera simile, anche nella “rossa” Emilia Romagna il ruolo del pubblico è stato preponderante, ma con un segno diverso: qui il supporto non è avvenuto dalle istituzioni nazionali (ben presidiate dalla Dc), bensì da quelle locali, dapprima a livello municipale e poi anche regionale con l’istituzione delle Regioni nel 1970. Non solo finanziamenti alle imprese, ma una più coordinata gestione dei servizi in generale, da quelli finanziari a quelli universitari, passando per le cooperative, sono le condizioni peculiari registrate nella regione.
A cavallo del nuovo millennio tuttavia la musica cambia, perché con la convergenza europea nella forma datesi dall’Unione e la successiva crisi ereditata dal Nord America nel 2007/2008, tanto il sistema bancario italiano (e non solo) quanto l’intervento dello Stato nell’economia subiscono dei contraccolpi che mettono a rischio il ruolo conquistato nel mercato globalizzato dall’industria delle suddette regioni. In sintesi, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna vedono spuntarsi gli strumenti che avevano permesso il supporto finanziario necessario al mantenimento della competitività del proprio tessuto produttivo.
È qui, dunque, che entra in gioco l’autonomia differenziata: in un’architettura europea che ha sottratto alle competenze statali la leva monetaria e disciplina quelle fiscali per mezzo di raccomandazioni, parafrasando la celebre espressione de Il padrino, “che non si possono rifiutare” (soft right), la via individuata dalle amministrazioni è quella dell’accaparramento di risorse di norma destinate alle regioni meno sviluppate del paese, di fatto venendo meno al “principio di solidarietà” costitutivo delle architetture costituzionali cosiddette antifasciste.
E non sorprende che l’attenzione sia rivolta alla fiscalità regionale, considerando che il mondo del Lavoro (nord compreso) è già stato abbondantemente spolpato (ma l’attacco non è di certo finito) dall’offensiva padronale ed europeista, che ha fatto del riflusso del movimento operaio il terreno pratico e ideologico della propria fame predatoria, in termini di salari e diritti, nonché di rappresentanza sindacale.
Qual è la situazione, oggi?
Un anno e mezzo e due maggioranze parlamentari dopo, lo stesso Gentiloni viene nominato dalla neo Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen agli affari economici, un portafoglio di peso ma semplificato rispetto alla commissione precedente in cui la delega prevedeva anche gli affari finanziari, per questa stagione di competenza del vice ministro Dombrovskis, mentre l’autonomia differenziata è tra i 29 punti del programma che ha reso possibile il Conte bis.
Quella che in prima istanza poteva significare un’apertura a una possibile maggiore flessibilità per l’economia italiana, così come richiesto addirittura dal di-solito-ferreo Presidente Mattarella pochi giorni fa da Cernobbio, sembra invece esclusa dalle dichiarazioni della stessa presidenta circa la chiarezza (e cioè, la non modificabilità) delle regole del “Patto di stabilità”.
Di certo, è il gioco delle parti e il nuovo governo pare (il forse è d’obbligo) aver intuito che, in special modo in caso di Brexit, l’Italia potrebbe avere la forza contrattuale per strappare una posizione meno subordinata nelle gerarchie intra-europee.
Si potrebbero leggere così (siamo nel campo delle pure ipotesi) le nomine di Di Maio agli Esteri e Provenzano al Sud, il primo firmatario assieme a Mattarella dell’accordo quadro con la Cina nel marzo scorso (la cui esposizione pubblica ne permetterebbe un maggiore controllo) e il secondo di area Svimez, dove da anni si sostiene la necessità di una politica industriale italiana che riporti il meridione protagonista nel Mediterraneo come anello imprescindibile dei flussi commerciali che vanno dall’Indocina all’Atlantico – si legga, “lotta dura” alla Lega Anseatica del XXI secolo dei porti, e del potere, del nord Europa. In quest’ottica, Gualtieri all’economia invece sarebbe la carta testimone della “voglia di Europa”, ma a un prezzo diverso.
Speculazioni a parte, su cui non si può che delegare la realtà per la verifica, quanto appena detto non rappresenterebbe comunque niente di cui gioire, come mai non si potrebbe per l’eventuale maggiore responsabilizzazione in un progetto di natura imperialista, che seppur fatica nel suo completamento, tuttavia non accenna a indietreggiare, come testimoniato dai risultati delle elezioni di fine maggio.
Poiché, al netto della retorica politica, di questo si tratta. Per credere, vedere valore e durata di un contratto di un lavoratore (peggio ancora se lavoratrice), ammontare della pensione di un settantenne, destinazione del biglietto in mano a uno studente, composizione sociale di un carcere qualunque.
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