di Michele Giorgio
L’ipotesi dell’avvio di un dialogo e, quindi, di un incontro tra Donald Trump e il presidente iraniano Hassan Rohani non è remota, è quasi zero. Eppure è
bastato che il presidente francese Macron dichiarasse al G7 che il
faccia a faccia è possibile per scatenare una ondata di accuse dei
falchi iraniani contro Rohani. A ben poco è servito che il
presidente iraniano, in un discorso pronunciato alla tv di stato, abbia
perentoriamente condizionato la sua disponibilità al dialogo alla revoca
completa delle pesanti sanzioni Usa contro l’Iran. «Il risultato più
significativo delle riunioni e delle trattative con gli Stati Uniti è
stato l’accordo sul nucleare (Jcpoa, del 2015, ndr) di cui nessuno ormai
dubita sia stato una catastrofe», ha protestato sul giornale
conservatore Kayhan Hossein Shariatmadari, rappresentante del leader
supremo Khamenei. Il quotidiano Khorasan ha ammonito che un ritorno
dell’Iran al tavolo dei negoziati con gli Stati Uniti verrebbe
interpretato come un «segno di resa e debolezza» causato delle sanzioni
americane. Ma anche una parte del fronte moderato ha esortato il
presidente a fare attenzione perché, spiega il riformista Mohammad Ali
Abtahi, l’idea del faccia a faccia con Trump potrebbe rivelarsi una
«trappola» e sfociare in nuove sanzioni economiche contro il paese e
dare più spazio a chi in Iran contesta l’accordo internazionale sul
nucleare.
In casa israeliana evidentemente sapevano con largo anticipo
dell’intenzione di Macron di invitare a Biarritz il ministro degli
esteri iraniano Zarif. E sapevano anche che Trump avrebbe usato
toni più morbidi verso Rohani e Tehran rispetto a quelli da scontro
totale che ha scelto da quando è entrato alla Casa Bianca e ha
annunciato l’uscita degli Stati Uniti dal Jcpoa. Il giornalista Barak
Ravid, esperto di rapporti Usa-Israele, scrive su Axios che
Netanyahu ha cercato Trump al G7 per tenerlo lontano da Zarif. Così la
raffica di attacchi aerei israeliani, tra sabato e domenica, contro
obiettivi riconducibili all’Iran in Siria, Iraq e Libano potrebbe aver
avuto lo scopo principale di tenere alta la pressione su Tehran e di
inviare un messaggio all’alleato Trump: lo Stato di Israele non accetta
un ammorbidimento nei confronti dell’Iran ed è pronto anche a scatenare
una guerra pur di difendere i suoi interessi. Tel Aviv in via ufficiale
denuncia attacchi imminenti con droni contro Israele sventati grazie
agli ultimi bombardamenti in Siria e denuncia piani del movimento sciita
libanese Hezbollah di dotarsi, con l’aiuto dell’Iran, di missili ad
alta precisione.
Per il noto analista israeliano Ben Caspit invece l’incubo di Netanyahu non è Teheran o Beirut ma Washington.
Il fatto che Trump abbia semplicemente preso in considerazione l’idea
di incontrare Rouhani, spiega Caspit sul portale d’informazione
mediorientale Al Monitor, è «una brutta notizia per Netanyahu, la
peggiore che abbia mai ricevuto... I toni pacifici usciti dalla bocca di
Trump possono materializzarsi in un finale horror (per Israele), l’Iran
trasformato in una nuova Corea del Nord». Ossia si ripeterebbe con
l’Iran la situazione in cui un imminente attacco militare statunitense
ai nordcoreani è diventato un dialogo, seppur a singhiozzo, tra Trump e
Kim Jong-un. «Quando sono emersi i primi segni dell’opzione negoziale la
febbre israeliana si è trasformata in panico», prosegue l’analista
sottolineando che Netanyahu è preoccupato dalla imprevedibilità
di Trump e sta usando tutto ciò che ha a disposizione per tenere il
presidente americano fedele alla linea aggressiva verso l’Iran.
«Netanyahu» conclude Caspit «è convinto di poter ancora manipolare Trump
prima delle presidenziali Usa del 2020. Ma Trump è propenso a lasciare
che ciò accada?»
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