Unione europea, questione nazionale e migranti hanno scavato
l’ennesimo solco nella sinistra radicale. Eppure questo decennio di
contrapposizione (esclusivamente) intellettuale lascia dietro di sé
macerie su cui costruire ben poco. Non saremo forse di fronte a false flags su cui ci accaniamo in assenza di lotte di classe dal basso? Favorito dalla chiacchiera social, ben
presto il confronto è scaduto sul piano della scomunica: “rossobruni”
contro “dirittoumanisti” è l’unico terreno di confronto, il punto di
mediazione è l’anatema vicendevole. Siamo davvero sicuri che da ciò
potrà nascere qualcosa di fecondo nella piccola ridotta
dell’anticapitalismo italiano? È lecito dubitarne. La polarizzazione ha
invece schiacciato le due posizioni a ridosso l’una del “sovranismo”
reazionario, l’altra del liberalismo illuminato, fronte entro cui
trovano posto il Pd, la Chiesa di Francesco e le Ong quali modus ideologico
dell’attivismo umanitario. Portare acqua al mulino altrui, soprattutto
quando questo è nel caso o nell’altro chiaramente avverso alle sorti di
una società migliore, può costituire una strategia? Il dubbio, fin
troppo evidente, impone una verifica di ciò che siamo diventati,
riconoscendo preliminarmente però un dato di fatto: in assenza di lotte
di classe (cioè di lotte politiche, non di vertenze sindacali), questa
esasperata conflittualità avviene su di un piano irrilevante. Non ci
stiamo giocando nessuna partita politica: perché dunque tanto amore per
la scomunica? Forse perché, consapevoli di
ciò, sappiamo di giocare senza farci male, simulando una dialettica che
in altri tempi avrebbe avuto una sostanza, e oggi è solo ritualità. Qui
c’è bisogno di demolire gli idoli che di volta in volta innalziamo a
difesa delle nostre ragioni, che molto spesso si rilevano parziali,
incomplete, inefficaci.
Bisogna dunque sottoporre a verifica molti dei topos di
questo decennio triste. Il populismo elettoralmente e culturalmente
trionfante ha scardinato il giochetto entro cui, tutto sommato,
vivacchiavamo: da una parte il babau berlusconiano, dall’altra il fronte
progressista. La “battaglia di civiltà” avveniva entro un continuum più
o meno chiaro: il Pds-Ds, erede del Pci, era a sinistra di Forza
Italia, della Lega Nord e di tutto il resto del carrozzone reazionario.
Si poteva criticare e combattere, ma entro un tradizionale quadro di
rapporti politici che resisteva almeno dal secondo dopoguerra: la
sinistra radicale dei movimenti anticapitalisti; la sinistra radicale
dei partiti confluiti in Democrazia proletaria prima e in Rifondazione
comunista poi; la sinistra riformista (e poi socialdemocratica) del
Pci-Pds; e poi le varie destre, dalla Dc a Forza Italia e via
degradando. Dentro questo quadro i riferimenti politico-culturali erano
immediati e le alleanze rispondevano a una tattica comprensibile. Con la
caduta del Muro, l’accelerazione europeista e la nascita del Pd quale
soggetto politico (idealmente) cardine del liberalismo del paese,
versione aggiornata di una Democrazia cristiana sfrondata della destra
andreottiana, a venire meno è il quadro sinteticamente tratteggiato. Il
Pd non ricopre più il ruolo della “sinistra riformista”, le sue
differenze con la destra altrettanto “riformista” vengono meno, nuove
fratture politico-culturali irrompono nel pensiero medio della società
italiana, si frantumano i rapporti di rappresentanza tra settori sociali
e referenti politici, l’intero schema delle relazioni politiche viene
travolto da nuove sfide a cui la sinistra risponde impreparata e
disorientata. Ragiona ancora oggi, questa sinistra “radicale”, secondo
uno schema secondo-novecentesco venuto completamente meno. Sublimando
l’irrilevanza con la ricerca di un “menopeggio” che però non è più
quello di ieri. Premessa la discutibilità di una tattica simile, che
ricerca fuori da sé le ragioni della propria sopravvivenza, se si
sbaglia anche l’analisi poi la tattica elementare (fuori di metafora:
accordarsi col Pd per combattere il “sovranismo” reazionario) finisce
per amplificare il problema più che ridurlo.
L’Unione europea è davvero il terreno principale sul quale riproporre l’eterna querelle tra
“riformisti” e “rivoluzionari”? Per molto tempo lo abbiamo pensato.
Ancora oggi, pensiamo che la costruzione europeista risponda ad una
necessità di lungo periodo del capitalismo continentale che va
combattuta e non favorita, perché regressiva e non progressiva
(“oggettivamente” parlando, s’intende, se ha ancora senso ricercare nei
fenomeni storici una loro necessità che prescinde dalle intenzioni di
chi li mette in opera). Credere che possa sussistere o determinarsi una
contraddizione tra la proiezione ideologico-culturale della Ue (il
cosmopolitismo delle élite sociali del continente funzionale al
superamento delle costruzioni statuali-nazionali) e la sua sostanza
economica (la Ue come strumento di governo delle contraddizioni della
globalizzazione da parte del grande capitale franco-tedesco), e pensare
che agendo su questa contraddizione si possa infine condizionare la
sostanza economica stessa della Ue (come pensa il coro della “altra
Europa”, variamente articolato), vuole dire non aver compreso
(colpevolmente o meno) che il piano dei rapporti culturali è determinato
in ultima istanza dai fattori economici alla base della costruzione
della stessa Ue. Non c’è contraddizione tra l’internazionalismo dei
capitali e il rivestimento retorico attraverso cui viene presentata la
Ue come contraria al nazionalismo statuale. Credere che il piano
economico stia pervertendo il “sogno” europeista fa retrocedere la
nostra capacità d’analisi a molti decenni prima dell’opera di Marx ed
Engels, che svelava per l’appunto la relazione necessaria tra la realtà e
le forme ideologiche mistificate attraverso cui essa si presenta.
Se questo però è il quadro “macro”, al livello della nostra capacità
d’intervento tale piano si presenta come eccessivamente astratto.
Corretto, ma scollegato dalle lotte reali. Che, giustamente, dovrebbero
contenere dentro di sé una critica alle ragioni ultime del modello
produttivo, e quindi anche una critica della Ue, ma che appunto riguarda
tali ragioni ultime, e non le prime. Non le premesse. E invece il
fronte antieuropeista – nel quale ci schieriamo anche noi – utilizza
l’analisi della Ue e il suo carattere reazionario come premessa, come
condizione basilare della propria politica “rivoluzionaria” (concetto al
momento disattivato, che utilizziamo solo per capirci). Un decennio di
sperimentazione in tal senso non ha prodotto i risultati sperati.
Sebbene una certa critica della Ue sia effettivamente un “fatto di
massa”, fatto proprio – ancorché nelle forme necessariamente mistificate
che la fase politica consente – da grandi parti di popolazione
sconfitta e impoverita dalla globalizzazione, questo stesso fatto è
racchiuso in altre critiche, che si esprimono riguardo ad altri
problemi, che agiscono su piani diversi. Sebbene, per fare un esempio,
gran parte dell’elettorato leghista o grillino covi questo malessere
verso la Ue, una manifestazione apertamente antieuropeista
coinvolgerebbe probabilmente molto meno “popolo” di quello che
elettoralmente affida al duopolio populista le ragioni di questa
critica. I motivi possono essere molti, quello che è importante rilevare
è che questa dinamica vale anche per noi. Dunque, dopo un decennio di
dispute accademiche e para-intellettuali sul ruolo della Ue, bisogna
riconoscere che queste non hanno prodotto nient’altro che cataste di
libri invenduti, di convegni di provincia, di presenzialismo mediatico,
malinconica autopromozione social, più utile alle ragioni
dell’europeismo che alla sua critica. D’altronde, viene da pensare, se
la lotta alla Ue viene veicolata mediaticamente da personaggi quali
Fassina e Fusaro, forse è meglio tenersi stretti Junker e Draghi che
finire governati dai deliri parodistico-intellettuali di Bagnai e
compagnia. Eppure Bagnai, a sua insaputa, è al governo. Ma ci sta contro
l’idea che stia lì perché è simbolo della critica alla Ue. Sta lì
perché il meccanismo politico della Lega (e in questo Salvini si è
rivelato politico sagace, nonostante la sua dilettantesca gestione della
crisi governativa) è riuscito nell’impresa di dare voce ai problemi
reali attraverso una critica delle questioni generali (problemi “reali”
non vuol dire problemi “veri”, ma problemi effettivamente esistenti e
così percepiti da parte della popolazione).
Le contorsioni europeiste hanno riattivato da un decennio anche la
questione nazionale, considerata sepolta dalla convergenza continentale e
dalle politiche liberali-liberiste dello scorso ventennio. Relegare
tale questione alla destra, sulla scorta dei cristianraimo di turno,
vuol dire garantire sine die l’egemonia culturale della destra stessa,
che riesce a mettere in relazione le questioni generali coi problemi
immediati della popolazione, ovviamente a suo modo, cioè stravolgendone i
significati. Eppure il problema è più ampio. Non si tratta di
consegnare alla destra il privilegio di saper parlare agli ultimi, ai
poveri, agli sconfitti. Significa decidere di non capire la società,
opponendo alla realtà il proprio piano ideologico.
Le scienze sociali dell’ultimo trentennio ci hanno spiegato che lo
Stato non va esaurendo il suo ruolo, e che anzi la costruzione
europeista nella globalizzazione impone un ruolo maggiore, più
pressante, coercitivo, giuridico, repressivo dello Stato stesso, che
aumenta la propria forza più che disperderla. L’ordoliberalismo è la
traiettoria che impone allo Stato di estendere i suoi poteri,
di farli più pervicaci e pervasivi, perché di fronte a forze economiche
incontrollabili o lo Stato estende i suoi poteri o è destinato alla
dissoluzione, fenomeno questo che terrorizza il capitalismo molto più
dei suoi critici. A venire meno è il “carattere nazionale”, cioè il suo
ruolo economico, lo Stato come agente pianificatore. Il passaggio è il
riflesso diretto della fine delle lotte di classe in Occidente. Erano
quelle che imponevano un ruolo statuale-nazionale di regolazione tra
politica ed economica. Il keynesismo è concepibile solo in virtù di
lotte anticapitaliste, che obbligavano il Capitale e razionalizzarsi,
seppure parzialmente. Venute meno le lotte, a venire meno è la necessità
del Capitale di mediare con se stesso attraverso la regolazione
pubblica. Ecco perché la “scomparsa della nazione” non si traduce in
scomparsa dello Stato, ma riflette la scomparsa delle lotte di classe. È
dunque un fatto di destra, non di sinistra. Viceversa, la richiesta di
“più nazione”, che prorompe sconclusionatamente dalle retoriche
populiste fatte proprie da molta parte della popolazione, non va
combattuta tout court, non va negata indeterminatamente, perché
promuove un messaggio che in sé non è reazionario, anche se fatto
proprio da forze reazionarie per il motivo di cui sopra: perché riescono
a fare oggi quello che la sinistra riusciva a fare qualche decennio fa,
cioè mettere in relazione i problemi generali con quelli immediati.
Decretare la regressività di questo processo significa cedere alle
narrazioni dominanti dell’epoca, quelle del cosmopolitismo borghese che
presenta come progressiva la liberazione dei (pochi) freni che ancora
oggi legano forzatamente i flussi dell’economia ai territori e alle
popolazioni, cioè alla politica. Questo il motivo del ritorno della
questione nazionale, decisamente più profondo delle intemerate
intellettualistiche della sinistra liberal che accredita come fascismo
qualsiasi richiesta di “più Stato”, cioè più intervento pubblico, più
politiche di controllo, regolazione e irreggimentazione delle dinamiche
economiche. Se la razionalizzazione dei processi produttivi, cioè
l’economia al servizio dell’uomo e non viceversa, è un fatto di
sinistra, questa non può che essere promossa da una pianificazione,
operazione che richiede per definizione un pianificatore, cioè una forza
pubblica che decide cosa si può fare e cosa non si deve fare, come
produrre e come non produrre, dove destinare le risorse materiali della
società e dove non destinarle, e via dicendo. L’autoregolazione delle
forze economiche, in tal senso, non può avvenire in presenza di economia
privata. Serve un potere coercitivo esterno e collettivo.
Eppure, anche qua, chi ha tentato di resistere alla vulgata
globalista ha finito per accodarsi alle retoriche della destra,
accettando di fatto le forzature retoriche “sovraniste” in nome di una
tradizione che non esiste, e che semmai rimanda a taluni passaggi
tattici della fase declinante del Pci. Che, per l’appunto, non è “la
tradizione”, ma una vicenda particolare del comunismo italiano, nella fase in cui non era più comunismo. Sebbene
infatti la storia del Pci può essere valutata in blocco, almeno dal ’44
in avanti, bisogna pur essere coscienti che questo “blocco” è in realtà
attraversato da continue evoluzioni, interne e internazionali. Non
ripercorreremo, per ragioni di spazio e di interesse, questa storia.
Quel che invece può essere colto in questa sede, è che la “tradizione” a
cui si fa riferimento è quella del Pci avviato alla convergenza
nazionale prima e al consociativismo politico dopo, un partito che cerca
di uscire dallo spavento degli anni Settanta accantonando
definitivamente l’idea di una società diversa, socialista – anche nella
sua versione “riformistico-strutturale” – integrandosi perfettamente non
solo nel “palazzo”, e cioè nella politica italiana nella versione
peggiore, ma anche con la liberaldemocrazia. Il Pci è infatti
transitato, senza traumi significativi, senza strappi determinanti, da
partito comunista ma non rivoluzionario – quello cioè
di Gramsci e Togliatti – al partito liberaldemocratico di Berlinguer e
Natta, senza attraversare la fase socialdemocratica. Il Pci e la sua
classe dirigente sono divenuti la classe dirigente liberale del paese,
non solo ormai integrata ma protagonista della politiche liberali e
liberiste del paese dagli anni Ottanta in poi (e certo poi perdendo ogni
dignità dagli anni Novanta). Ecco, la “tradizione” a cui si rimanda
riguardo alle “politiche forti” su sovranità e statualità nazionale,
rispetto del diritto, e persino oggi con la questione migrante, fanno
riferimento a questo Pci, non all’idea storica del Pci, che è qualcosa di più vasto e di meno macchiettistico. A suo volta, questa storia non è la storia
del comunismo novecentesco, ma una sua particolare e sintomatica
vicenda, troppo particolare per essere generalizzata. Insomma, per farla
breve: aggrapparsi al ruolo costituzionale del Pci per appoggiare da
sinistra politiche di destra significa costruire una narrazione
storicamente falsata per fini speculativi dell’attualità. Potrebbe
essere anche comprensibile, l’idea cioè di presentare come “di sinistra”
politiche di destra, eliminandone l’aspetto razzista per salvaguardarne
il proposito “regolativo”. Il problema è che non può riuscire: una
politica di destra avrà sempre e comunque più forza (almeno elettorale)
se portata avanti dalla destra. Tra l’originale e la fotocopia,
l’elettore sceglie sempre l’originale, più coerente, meno spaventato
dall’eresia (che per lui non è tale).
Dunque tocca inventarci qualche cosa, perché se la sinistra
cosmopolita non funziona, in quanto articolazione culturale della destra
economica, non funziona neanche la sinistra sovranista, in quanto
anch’essa articolazione culturale della destra. Cambiando l’ordine dei
fattori non cambia il risultato, cioè la subalternità
politico-ideologica alla destra. Le soluzioni a questi problemi non
verranno però da una riflessione scritta. Non solo perché non c’è nessun
Marx in giro a “darci la linea”, ma perché questa non può che venire
dalle lotte, e dall’autoriflessione che il pensiero rivoluzionario più
consapevole può trarre da queste stesse lotte. Il problema allora è
starci nelle lotte di classe. E qui si presenta il primo fattore
dirimente. In questo decennio chi ha abbandonato (e in qualche modo
giustamente) le stanche ritualità del movimentismo italiano, il suo
pensiero dominante tanto nelle assemblee quanto nei dipartimenti
universitari (un significativo specchio di questa egemonia), ha poi
abbandonato anche il terreno delle lotte reali. Viceversa, chi anima le
poche e raffazzonate lotte (ma questo va ancora più in merito di chi non
si è arreso) non riesce a escogitare il nesso tra l’immediata rilevanza
dei problemi quotidiani (siano essi sindacali, territoriali, eccetera) e
le soluzioni che possono qualificarci solo su di un piano generale,
universale. La sinistra non ha risposte semplici a problemi complessi
(terreno della destra), ma risposte complesse ai problemi immediati. Ma
questi due capi della vicenda vanno tenuti insieme, ed è questa la
difficoltà oggi. Vale anche per la questione migrante, soggiogata tra
l’incudine del razzismo sovranista e il martello dell’accoglienza
umanitaria. Finché questi due estremi continueranno a non trovare
collegamento, le sorti della sinistra nel nostro paese rimarranno tali,
di cartello elettorale in cartello elettorale, alla disperata ricerca di
qualche deputato che possa farci svoltare la carrierina politica o il
restauro del centro sociale. Non sta funzionando, non può funzionare.
Torniamo a pensare veramente.
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