Nel bel mezzo della Toscana costiera, nel
livornese, in località Rosignano Marittimo, vi è una spiaggia dai
colori caraibici, sabbia bianca e mare cristallino. A chiunque verrebbe
voglia di farsi un lungo bagno ristoratore su quei lidi, ma meglio
fermarsi prima ancora di arrivare...
Quei colori cristallini sono prodotti dai materiali di scarico di una multinazionale chimica, la Solvay,
che riversa in mare ogni giorno enormi quantità di sostanze chimiche e
scarti di produzione che fanno virare i colori naturali della costa verso quel candido bianco bicarbonato velenoso.
Solvay è una azienda multinazionale
chimica fondata in Belgio nel 1863 da Ernest Solvay che si insedia nel
territorio italiano nel 1912 in provincia di Livorno sul Mar Tirreno
nello stabilimento di Rosignano Marittimo. La società realizza diversi
prodotti chimici fondamentali per l’industria delle materie plastiche,
aerospaziale, petrolifera e medica, nonché il famoso bicarbonato di
sodio.
Attualmente Solvay ha 7 siti produttivi in Italia – Ospiate
(Milano), Spinetta Marengo (Alessandria), Mondovì (Cuneo), Livorno,
Massa, Rosignano Solvay (Livorno) e Bollate (Milano) – occupa su tutto
il territorio peninsulare 1900 persone e ha un fatturato a livello
mondiale di circa 10 miliardi di euro annui.
Le inchieste giornalistiche si
concentrano principalmente sull’inquinamento, sfruttamento del suolo e
danni ai lavoratori e abitanti che risiedono nelle vicinanze dei siti di
Rosignano e Spinetta Marengo. Proprio a Rosignano, la Solvay produce il
bicarbonato di sodio per la cui produzione servono sale e acqua. Mentre
il primo viene estratto dal vicino comune di Volterra tramite una
concessione esclusiva concessa dallo Stato, 10 milioni di metri cubi
d’acqua vengono estratti ogni anno dal fiume Cecina e pagati allo stato
un’irrisoria cifra di 4 centesimi al metro cubo (mentre, ad oggi,
l’acqua costa più di un’euro al metro cubo). Risultato: il Cecina è
perennemente prosciugato e il comune di Volterra in continuo e
permanente dissesto idrogeologico. A tale situazione si aggiunge che lo
stabilimento di Rosignano è autorizzato a scaricare in mare in deroga
alla legge. Come mostra l’attualissimo caso dell’Ilva di Taranto
le deroghe alla legge in tema di diritto ambientale sono evidentemente
all’ordine del giorno, a dimostrazione di come la legge stessa sia un
apparato di regole flessibili ad uso e consumo di chi detiene il coltello dalla parte del manico nei rapporti di forza.
Analisi condotte dall’Agenzia
Regionale per la Protezione Ambientale (ARPA) e riconosciute dalla
stessa Solvay, mostrano che le acque nelle vicinanze della spiaggia
caraibica siano ricche di sostanze altamente inquinanti.
In 50 anni, si ritiene che l’azienda chimica abbia riversato un
quantitativo di 400 tonnellate di mercurio e altri materiali nocivi
quali arsenico, nichel, selenio, piombo e cromo. Proprio i
residui della produzione di bicarbonato riversati in mare hanno portato
alla devastazione della flora e fauna marina, ma anche alla creazione
di quelle spiagge bianche che ricordano tanto i mari caraibici.
Sebbene
nel 2003 per contrastare la situazione allarmante sia stato firmato un
accordo tra Regione Toscana, provincia Livorno e Ministero dell’Ambiente
che prevedeva una soglia massima di riversamenti in mare di 60mila
tonnellate l’anno, tale limite non fu mai rispettato e la soglia massima
fu alzata ad un limite di 250mila tonnellate annue nel 2015
(ossia la quantità che l’azienda necessitava di buttare in mare). Non
soddisfatta del devastante impatto ambientale, Solvay ha fatto
seppellire ulteriori fanghi e residui chimici (ad esempio il Cloruro di
Vinile, scarto di lavorazione della plastica) nella zona del ferrarese
dove aveva aperto un sito produttivo attivo fino al 1998. Ridicolo,
preoccupante e drammatico è il caso di Ferrara dove il comune sembra
ignaro dei riversamenti di scorie della produzione Solvay su alcuni
terreni che oggi sono stati adibiti alla produzione di grano che finisce
quotidianamente sulle nostre tavole.
Per pulirsi la coscienza e farsi
accettare dalla società di Rosignano, Solvay costruisce una città
attorno alla fabbrica nella frazione intitolata proprio alla medesima
industria (Rosignano Solvay). Riempie questa frazione di case per operai
e per dirigenti, uno stadio di calcio, delle scuole elementari, medie un liceo e un cinema. Persino la chiesa è dedicata a Solvay. Un
capolavoro succede in quel di Rosignano: lo sfruttatore e inquinatore
Solvay, responsabile di malanni e della morte di decine di lavoratori
e abitanti delle zone limitrofi alla fabbrica, con un comportamento che
ha un carattere puramente mafioso, si sostituisce allo Stato e fa opere
pubbliche per essere accettato e lenire un eventuale malcontento
cittadino. Sa di sfruttare, inquinare e uccidere, ma bada all’apparenza e
alla pace sociale, figurando davanti alla gente di Rosignano come il
padrone benevolo che dona lavoro e crea una società armoniosa che
nemmeno uno Stato sarebbe in grado di garantirgli. Ancor più subdola e
grave è la situazione che si è venuta a creare a Spinetta Marengo in
provincia di Alessandria dove Solvay ha rilevato un sito industriale (ex
Montecatini) per la produzione di polimeri. A differenza di Rosignano,
dove Solvay costruì un’intera città attorno al polo industriale, a
Spinetta Marengo trovò abitazioni e quartieri costruiti. Qua –
continuando con le pratiche iniziate dalla Montecatini nel 1946 – Solvay
regalò l’acqua alle abitazioni prossime al sito industriale sotto la
condizione contrattuale che era ‘vietato lamentarsi’. Questo contratto,
inizialmente proposto nel 1946 e rimasto in essere fino al 2008,
obbligava i contraenti a “rinunciare a qualsiasi pretesa in ordine a
danni e molestie […] da esalazioni gassose o pulverolente e da
inquinamento di acque di acque del sottosuolo in dipendenza
dell’esercizio del nostro Stabilimento di Spinetta Marengo”.
Si scoprì
che le falde e l’acqua erano inquinate (anche dal tanto temuto cromo
esavalente) e numerose gravi patologie colpirono gli abitanti che
risiedevano nelle vicinanze della fabbrica, per lo più operai che
lavoravano all’interno del sito industriale di Spinetta Marengo.
Nonostante i valori delle sostanze tossiche trovate nelle falde
sottostanti il polo chimico fossero di decine e centinaia di volte
superiori a quelli consentiti, il processo volto a fare chiarezza sui
responsabili del disastro ambientale non ha stabilito nessun nesso di
causalità tra acque inquinate e decessi. Attualmente ARPA e Regione non
sembrano interessate a risolvere il problema ambientale e sanitario
della zona di Spinetta Marengo a tal punto che non sono neppure in grado
di accertare lo stato di inquinamento delle acque. I controlli sui
prodotti chimici creati da queste società non possono essere fatti dallo
Stato italiano ma solo ed esclusivamente da un’agenzia che rappresenta
l’occhio dell’Europa nel settore chimico: l’European Chemicals Agency
(ECHA). Tuttavia, gli unici controlli fatti sulle nuove sostanze
chimiche dipendono esclusivamente da autocertificazioni che le aziende
stesse fornisco all’ECHA.
Il caso di Solvay, come i casi di Gela, degli scarti radioattivi in Lombardia e del Veneto, il recente caso dell’ex-ILVA
di Taranto e altri numerosi casi simili esplosi nel corso degli ultimi
decenni, mette a nudo una realtà assai scomoda del capitalismo. I grandi
gruppi industriali privati hanno un unico interesse: la massimizzazione
dei profitti, a qualsiasi costo umano, sociale e ambientale.
Ingenti profitti vengono macinati attraverso una gigantesca compressione
dei costi che, oltre allo sfruttamento del lavoro, fa leva sullo
sfruttamento del territorio, dallo sversamento degli scarti industriali
in mare sino ad arrivare all’inquinamento delle falde acquifere che
portano l’acqua nelle case degli stessi lavoratori che vengono impiegati
dalla Solvay nella produzione di prodotti chimici. I profitti, i
padroni e l’assenza di uno Stato forte capace di controllare sono i
principali responsabili dei disastri ambientali. Non ha quindi alcun
senso immaginare che una riconversione industriale
rispettosa dell’ambiente passi attraverso la libera azione dei privati,
a meno che il privato non fiuti un potenziale affare garantito da
politiche di incentivi e contributi pubblici a carico della collettività
– proprio quel capitalismo “verde” che da qualche anno caratterizza diversi settori fortemente sussidiati.
Cosa ci permette di comprendere il caso Solvay e quali strumenti possiamo utilizzare per creare un’economia più sostenibile?
- Noi comuni cittadini attraverso scelte di consumo ‘ecosostenibili’
abbiamo poco impatto sulle capacità di riconversione di un’economia. Per
quanto noi decidiamo di mangiare pomodori rispettosi dell’ambiente e
indossare vestiti di canapa, beni prodotti da settori come quello della
chimica entrano nella produzione di tutti i beni che compriamo
quotidianamente. Di conseguenza, la sacrosanta (e lo ripetiamo,
sacrosanta) battaglia per un’economia ecosostenibile va fatta dal lato
della produzione e non dal lato del consumo.
- La battaglia dal lato della produzione avviene tramite
l’introduzione di metodi di produzione rispettosi dell’ambiente
attraverso grossi investimenti capaci di salvaguardare l’ambiente
bandendo pratiche nocive come lo sversamento di materiali inquinanti nei
mari, nelle falde acquifere e nei sottosuoli. Tuttavia, i veri
investimenti (e non quelli di facciata per pulirsi le coscienze) non
verranno mai fatti dalle imprese private perché il loro compito è sempre
e solo quello di abbattere i costi e aumentare i profitti. Alle
imprese, investimenti per la salvaguardia dell’ambiente costerebbero
troppo e minerebbero la redditività.
- L’unico grande attore capace di praticare una riconversione
industriale sarebbe lo Stato tramite grandi investimenti pubblici e
imprese pubbliche in settori strategici dell’economia quali la chimica, i
trasporti, la medicina e il comparto aerospaziale. Il privato, se
lasciato operare da solo, non fa altro che aumentare i propri profitti
anche a costo di far ammalare e morire la gente, di solito lavoratori
dentro le fabbriche non a norma di legge o nelle case circostanti i siti
industriali. Dall’altra parte, la chiusura di poli industriali non è di
certo auspicabile perché lascerebbe intere famiglie senza lavoro e
dunque non più a morire di malattie ma di fame.
- Solo attraverso il rifiuto delle logiche di mercato e la presenza di
uno Stato pianificatore, si può pensare una riconversione industriale
rispettosa dell’ambiente, dei lavoratori e di tutte le popolazioni che
vivono a contatto con i siti produttivi.
Fonte
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