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19/03/2020

Domenico Moro - "Siamo in una tempesta perfetta. L'Europa non ha risposte ad uno shock esterno come una pandemia"

All'emergenza sanitaria seguirà il difficile, difficilissimo momento della ricostruzione economica. Se questa crisi sarà un'opportunità per rottamare per sempre un sistema, un modello e una propaganda fallita e fallimentare impostasi negli ultimi trent'anni, dipenderà anche dalla mobilitazione popolare e dell'opinione pubblica da subito.

Come Antidiplomatico vi proporremo un percorso di interviste per iniziare a delineare la situazione attuale, immaginare i prossimi scenari e sensibilizzare il più possibile sui fallimenti del passato da non ripetere più in futuro.

Qui di seguito il preziosissimo contributo dell'economista Domenico Moro*

Intervista esclusiva per L'Antidiplomatico

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La Spagna requisisce la sanità privata, la Francia annuncia nazionalizzazioni di imprese in crisi e la Germania prepara un bazooka da 550 miliardi per salvare le sue aziende. Le misure del governo italiano sono state invece molto più contenute e rispettose delle regole europee: non è che l'Italia è rimasta la sola a cercare una via condivisa di uscita dalla crisi?

DM - Per prima cosa bisogna dire che siamo in una “tempesta perfetta”. Già, prima del Covid-19, si prevedeva un rallentamento se non una recessione a livello mondiale. Ora, con il Covid-19, si prospetta una recessione molto più grave di quella del 2008-2009. Di fronte a questa realtà c’è la dimostrazione di quello che alcuni, tra cui il sottoscritto, hanno affermato da tempo: l’Europa non esiste né può esistere come soggetto politico unitario. È, tutt’al più, un sistema intergovernativo. L’eurogruppo, la riunione dei ministri economici, ha partorito il topolino: misure di bilancio coordinate pari all’1% del Pil dell’Unione. Di fronte alla crisi ogni Stato fa da sé. Persino la libera circolazione all’interno dell’Unione (lo spazio di Schengen) è messa in discussione, anche la Germania ha comunicato a Bruxelles che avrebbe rafforzato i controlli ai confini interni. I 25 miliardi messi in campo in prima battuta dal governo italiano sono una inezia.

Per ora l’Europa si è limitata ad assicurare la possibilità di sforare i vincoli di bilancio come previsto in caso di calamità. Ma anche se si decidesse la sospensione del Patto di stabilità, cioè il non rispetto del parametro del 3% del deficit, per l’Italia non sarebbe facile. Infatti, la spesa dovrebbe essere sostenuta con una emissione massiccia di titoli di stato, il cui rendimento ben difficilmente sarebbe sostenibile, come dimostra l’innalzamento dello spread degli ultimi giorni. Verremmo quindi messi in difficoltà dal peso del servizio al debito. Il punto principale è che manca in Italia e in Europa un vero prestatore di ultima istanza, cioè una banca centrale in grado di acquistare il debito pubblico dei paesi in difficoltà e tenere a distanza la speculazione, calmierando i tassi d’interesse sui titoli. Anche gli acquisti di titoli di Stato dell’epoca di Draghi hanno avuto una efficacia ridotta perché si rivolgevano agli acquisti di tutti i titoli stato, compresi quelli tedeschi e degli altri Paesi core, che invece sarebbe stato necessario vendere per ripristinare la convergenza dei tassi in tutta Europa. Ora, le dichiarazioni di pochi giorni fa della Lagarde, presidente della Bce, secondo cui tenere sotto controllo lo spread non è compito della Bce, sono esemplificative di questa situazione di inadeguatezza.

"Convocare subito il Comitato di sicurezza finanziaria e affiancarlo da un trust di cervelli per evitare ulteriori danni e salvare gli interessi economici nazionali". Lo ha dichiarato questa settimana Lamberto Cardia, ex presidente della Consob, per salvare asset fondamentali per il sistema paese. È d'accordo?

DM - Sinceramente non credo possa bastare, all’interno del quadro europeo così come l’ho descritto sopra. Il problema è l’Europa, cioè il fatto che le élite economiche, finanziarie e politiche hanno costruito un sistema rigido non in grado di reagire adeguatamente agli shock esterni, come nel caso, per l’appunto, di una pandemia. Privi della necessaria flessibilità, legata alla possibilità di fare deficit senza limiti, si è nei fatti nell’impossibilità di adattarsi ad avvenimenti gravi ed imprevisti. Anche la nuova versione della vecchia proposta degli eurobond, ossia l’emissione di titoli europei, garantiti dalla banca centrale e legati all’emergenza Covid-19, andrà incontro sempre alle stesse difficoltà: l’indisponibilità di alcuni Paesi, e della Germania in particolare, di farsi carico di una parte del debito di altri Paesi.

Cosa risponde a coloro che stanno invocando il MES come misura per arginare la crisi in corso?

DM - Rispondo che stanno bussando alla porta sbagliata. A parte il fatto che il Mes non ha le risorse necessarie, i prestiti verranno concessi soltanto se il Paese richiedente rispetta i parametri del Fiscal compact. In pratica se il Paese richiedente ha un deficit non superiore al 3% e se nei due anni precedenti ha ridotto di un ventesimo il debito pubblico. Il Mes non è altro che uno strumento per rafforzare l’applicazione del Fiscal compact, che prevede la riduzione del debito pubblico al 60% nell’arco di venti anni. Ora avendo l’Italia un debito del 136% sul Pil, pari a circa 2.440 miliardi, rivolgersi al Mes significherebbe trovare 60-70 miliardi di euro all’anno per abbattere il debito pubblico. Un'impresa impossibile. Insomma il Mes va nella stessa direzione di rigidità che ha caratterizzato dal punto di vista economico l’intera costruzione dell’eurozona sino ad oggi. Un Paese che dovesse ricevere il suo aiuto si troverebbe a dover rispettare negli anni successivi vere e proprie condizioni capestro.

Olivier Blanchard, ex capo economista dell'FMI ha dichiarato: "se siamo in guerra allora bisogna fare deficit pubblici da guerra, ossia a doppia cifra". Quale sarebbe secondo lei il tasso di deficit che l'Italia dovrebbe avere per il 2020 per affrontare adeguatamente la crisi?

DM - Già ora siamo oltre il 3% di deficit. Una stima realistica, se stiamo parlando di “deficit da situazione di guerra”, non dovrebbe essere inferiore ad almeno il 10%, che poi è all’incirca la percentuale che raggiunsero gli Usa durante l’ultima crisi del 2008-2009 e che gli permise di superarla e mantenere tassi di crescita maggiori della Ue negli anni successivi. Va da sé che un tale o simile livello di deficit non dovrebbe essere limitato al solo 2020.

Per le ripercussioni sull'economia reale, i primi studi dell'impatto sul tessuto economico parlano di un possibile crollo del Pil per il 2020 e il fallimento del 12% delle imprese. Senza un intervento forte dello stato è possibile immaginare una forte speculazione predatoria delle multinazionali contro le nostre imprese?

DM - L’ultima crisi ha determinato un calo della capacità produttiva dell’industria manifatturiera italiana del 25%. Possiamo quindi immaginare cosa potrebbe succedere con la crisi che si prospetta. Il calo del valore di borsa delle società italiane (ma non solo di quelle italiane) le rende più facilmente contendibili dall’estero. La Francia si è mossa rapidamente per fronteggiare questo pericolo. Per evitare che imprese fondamentali per il tessuto produttivo francese scompaiano ha messo in campo 45 miliardi, non facendosi scrupolo di parlare esplicitamente di nazionalizzazioni. L’Italia deve muoversi nella stessa direzione, con la creazione di uno scudo antiscalate ostili per le società italiane quotate. Ma, in aggiunta, anche in Italia le nazionalizzazioni devono ridiventare uno strumento usuale di politica economica. Del resto, il Covid-19 sembrerebbe stia permettendo quello che fino a qualche tempo fa pareva impossibile, la nazionalizzazione dell’Alitalia. In questo caso sembra che qualcosa si stia muovendo a livello europeo sulla questione degli aiuti di Stato.

Romano Prodi in un'intervista a La Stampa di questa settimana ha dichiarato: "L'Italia deve riorganizzarsi e diventare attrattiva per le imprese che vogliono trasferirsi qui". Con la moneta unica dell'euro come può essere attrattiva l'Italia se non riducendo i salari ulteriormente? Il rischio non è di trasformarci nella Polonia o Romania della zona euro?

DM - L’effetto della moneta unica europea in Italia è già stato quello di contribuire a tenere bassi i salari. Mi pare del tutto folle cercare di raggiungere la Romania o la Polonia in questa corsa al ribasso. Affidarsi all’attrattività per le multinazionali estere è un concetto ormai vecchio, legato alla prima fase della globalizzazione. Le multinazionali vengono solo se gli conviene non solo da un punto di vista salariale, e come abbiamo visto l’Italia non può certo raggiungere la Romania o la Cina, ma anche dal punto di vista della fiscalità. La sede di molte importanti imprese italiane è nei Paesi Bassi o in Inghilterra perché questi Paesi hanno ridotto le imposte alle imprese. Ma neanche il dumping fiscale è una strada che il nostro Paese può praticare. La vera strada che sarebbe da praticare è un rafforzamento della domanda dall’interno, cioè mediante un intervento dello Stato nella produzione di beni e servizi che sia in grado di sostenere l’occupazione e la crescita del Pil e con essi ottenere un adeguato gettito fiscale e la possibilità di ridurre il debito pubblico in rapporto al Pil.

I tagli alla sanità pubblica sono l'esempio più lampante del fallimento del modello imposto negli ultimi trent'anni. Si uscirà con più Stato e meno mercato da questa crisi o saranno sempre gli stessi a gestire con i vecchi metodi il post?

DM - Certamente le difficoltà della sanità nel far fronte al Covid-19 derivano in parte non indifferente dalle scelte che sono state fatte negli ultimi anni, con i tagli miliardari alla sanità per poter rientrare nei criteri del Fiscal compact e tenere il deficit al di sotto del 3%. Allo stesso modo ha pesato aver privilegiato, rispetto alla sanità pubblica, quella privata, come sbocco altamente remunerativo ai capitali privati in difficoltà a trovare rendimenti adeguati. La situazione attuale, nella sua drammaticità, offre, però, un’opportunità: rimettere al centro lo Stato non solo come finanziatore di infrastrutture, cosa che, anche se troppo timidamente, sembra si stia cominciando a fare, ma come dicevo sopra, anche come produttore di beni e servizi anche in settori dove ci sono i privati.

Come giudica la reazione dal punto di vista monetario e fiscale della Cina negli ultimi tre mesi, dal momento della messa in quarantena della regione focolaio del coronavirus ad oggi? Può essere un modello anche per i paesi della zona euro?

DM - La Cina ha saputo dare una risposta forte e altamente organizzata all’emergenza, dimostrando a tutto il mondo le capacità dello Stato cinese. La verità è che in Cina – nonostante la crescita negli ultimi anni di grandi gruppi privati – lo Stato ricopre ancora un ruolo fondamentale in tutti i settori, nel commercio estero, nel settore finanziario e finanche nella produzione industriale. È evidente che il sistema cinese è molto lontano da quello europeo e soprattutto da quello statunitense. Ma ci possono essere degli spunti che andrebbero colti: farla finita con il neoliberismo e ritornare a un maggiore ruolo del pubblico nei confronti del privato.

Infine, quale sarebbe il messaggio da mandare a quei giornali, economisti e opinionisti vari che per anni hanno difeso l'austerità, il Patto di stabilità e le distorsioni della zona euro per poi fare marcia indietro adesso che sta implodendo tutto?

DM - Un tempo, fino agli anni ’80, in Italia, per quanto essa fosse pur sempre uno Stato capitalista, esisteva una economia mista con un settore pubblico di tutto rispetto. Non è un caso se è dagli anni ’90, cioè da quando quel sistema ha cominciato a essere dismesso, che l’Italia sconta una crescita inferiore a quella degli altri Paesi europei. Sarebbe il caso non soltanto di ritornare indietro a quel sistema, che aveva molti pregi pur con tutti i suoi difetti, ma anche di ridefinire un nuovo ruolo del pubblico, reintroducendo nel dibattito un concetto su cui per alcuni decenni, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, gli economisti e non solo loro avevano discusso, quello di pianificazione. Come ho detto, il Covid-19 è una dolorosa emergenza, ma proprio in situazioni come queste si rende possibile rompere i paradigmi ormai ossificati, come nel nostro caso quello neoliberista, basato sull’euro e sull’austerità, e introdurre paradigmi nuovi, più adeguati a un mondo che il Covid-19 sta contribuendo velocemente a cambiare. A partire dal ripristino del ruolo centrale dello Stato e di un prestatore di ultima istanza, cioè di una banca centrale che non abbia nel controllo dell’inflazione il suo compito principale. Lo shock esterno dato dalla crisi finanziaria del 2008-2009 ha incrinato la fiducia in vecchie idee mercantilistiche e liberistiche, la nuova pandemia ha allargato quelle incrinature, specie nell’architettura dell’euro. La speranza, anzi l’obiettivo di una forza politica di nuova sinistra dovrebbe essere quello di sfruttare l’occasione che si presenta inserendosi in queste incrinature e far saltare il sistema della UE e dell’euro.

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