Le banche centrali azzerano il costo del denaro, rendendo gratuito prenderlo a prestito in quantità pressoché illimitate. Varano massicci programmi di acquisto del debito pubblico, per sostenere le finanze dei governi che si apprestano a inondare le rispettive economie di aiuti per sostenere reddito e produzione durante la pandemia di coronavirus.
Eppure, le borse registrano picchiate verticali, nel migliore dei casi paurose oscillazioni. Caso più unico che raro, queste coinvolgono insieme azioni e obbligazioni, anche pubbliche, a cominciare dai titoli del Tesoro americano. Bene rifugio per eccellenza insieme all’oro, le cui quotazioni salgono quando tutto il resto perde valore per la fuga degli investitori. In questo caso invece si fugge da tutto, ammassando liquidità sotto il materasso in attesa di tempi migliori.
Perché in questi drammatici frangenti niente sembra funzionare? Perché il panico attanaglia tutti i mercati e tutti i settori?
La spiegazione impone di guardare in tutte le direzioni: ieri, oggi e domani.
Ieri
Siamo nei primi anni Ottanta, all’alba dell’era reaganian-thatcheriana che nei decenni successivi avrebbe imposto al mondo post-guerra fredda il paradigma neoliberista codificato nel Washington consensus. I livelli mondiali del debito cominciano a salire man mano che i tassi praticati dalla Federal Reserve – e di riflesso dalle altre principali banche centrali – calano e la deregolamentazione rende sempre più facile al sistema finanziario prestare denaro. La politica ha trovato la ricetta della felicità, capace di far crescere l’economia in barba agli shock di offerta, come le crisi petrolifere degli anni Settanta. E in barba al tendenziale calo della domanda aggregata, per la ridotta capacità di spesa dello Stato e dei redditi da lavoro indotta dalla trickle down economics, che punta sui tagli fiscali alle fasce alte di reddito nella messianica (mai provata) convinzione di beneficiare a cascata (trickle down) il resto dell’economia privata, la cui efficienza è assunta a dogma.
Nel 2008, alla vigilia della grande recessione, il debito pubblico e privato è grande tre volte l’economia mondiale: un picco storico. La crisi riduce sensibilmente la componente privata (via fallimenti a catena e nazionalizzazioni), ma non quella pubblica. Complice il denaro ultra-economico degli ultimi 11 anni, entrambe le componenti tornano a salire, tanto che oggi il settore privato statunitense (le aziende) ha debiti per il 75% del pil nazionale. Più del 2008.
In questi 16 mila miliardi di dollari di passività si annidano i cosiddetti zombie. Si tratta di società quotate in borsa, ben il 16% del totale dell’indice Dow Jones e oltre il 10% dei listini europei, secondo la Banca dei regolamenti internazionali. Il loro flusso di cassa non basta nemmeno a ripagare gli interessi sui debiti contratti. Realtà tecnicamente fallite, concentrate in comparti – auto, turismo, trasporti – falcidiati dal coronavirus e in settori nel frattempo divenuti architravi dell’economia statunitense, come quello estrattivo (gas e petrolio da scisti). A fianco a questi casi limite, vi sono le società che, per evitare la stretta regolamentare post-2008, si sono sottratte alla quotazione di borsa facendosi acquistare con operazioni che sovente hanno sommerso gli acquirenti di debiti.
Ne deriva che, oggi, la società americana media posseduta da un fondo azionario genera debiti per circa sei volte i profitti annuali: il doppio della soglia oltre la quale le agenzie di rating classificano un titolo come spazzatura.
Oggi
L’epocale crisi del coronavirus colpisce economie pesantemente indebitate e assuefatte a costi del denaro quasi nulli, che lasciano poco margine di manovra alle politiche monetarie delle banche centrali. Quando un giorno sarà scritta la storia di questa crisi, purtroppo solo agli inizi, andrà tra l’altro smascherato l’inganno della presunta indipendenza delle banche centrali dai governi. La dipendenza c’è eccome, ed è delle peggiori, perché subdola. Le banche centrali, Fed in testa, hanno comprato trent’anni di tempo alle classi politiche. Consentendo loro di cavalcare i benefici elettorali del capitalismo post-sovietico e della finanza a esso consustanziale. Infischiandosene della necessità di concepire un piano B, di interrogarsi sulla tenibilità di tale modello. Di esercitare un pensiero (auto)critico e minimamente strategico.
Il temuto cigno nero, l’evento più o meno improbabile e altamente dirompente, chiude la spensierata parentesi. Palesando la fragilità di un sistema economico e finanziario strutturato per sottostimare i rischi onde massimizzare i profitti a breve, brevissimo termine. Una “stabilità destabilizzante”, come l’ha definita Hyman Minsky, prodotto di decenni di eccessi eretti a sistema. Gli artefici di questo mondo e gli operatori economici che lo animano nella maggior parte dei casi sono avidi, non stupidi. È ormai chiaro che il virus, imponendo draconiane misure di distanziamento sociale, strozza al contempo offerta e domanda. Dunque sia la capacità di produrre sia la possibilità di acquistare – e in prospettiva di disporre dei redditi sufficienti ad alimentare il consumo, stante il rischio concreto di fallimenti a catena e relativi costi occupazionali indotti dalla pandemia.
Questo lo hanno capito tutti. Anche perché, in Italia come altrove, l’economia contemporanea si fonda su assunti intrinsecamente instabili. Oltre al debito, l’elenco è lungo. Il just in time, l’azzeramento delle scorte di magazzino per ridurre all’osso i costi, che cozza con il progressivo allungamento delle filiere produttive. La precarizzazione del lavoro, con fasce consistenti di popolazione il cui sostentamento non ammette pause lavorative, che fa a pugni con la progressiva estensione del credito anche al consumo. Il disinvestimento nel pubblico e nelle sue reti infrastrutturali, a cominciare dalla sanità, grande negletta di quasi tutti i paesi ad alto reddito, malgrado il generale invecchiamento demografico e la necessità di sostenere poderosi apparati produttivi. Da ultimo, il predominio dei servizi: pari al 65% dell’economia mondiale, sono caratterizzati dal massiccio ricorso al precariato e da piccole-medie imprese, la cui sopravvivenza è vincolata al flusso di cassa. Qui, più che altrove, si annida il rischio di fallimenti capaci di far impennare disoccupazione e sofferenze bancarie.
Il mercato vede il pericolo. Valuta l’insostenibilità dei fondamentali. Assiste alla relativa impotenza delle Loro maestà i banchieri centrali. Vede la politica debole e divisa. Va nel panico.
Domani?
Questa crisi è sistemica. A posteriori, il virus sarà la pallottola che uccide l’arciduca Francesco Ferdinando, l’evento rapsodico che dà la spallata a un equilibrio ormai troppo precario per reggere alla prova della realtà e della storia. La sistematicità della crisi, di cui il 2008 apparirà l’inquietante anteprima, implica che il sistema deve cambiare. Pena il suo (nostro) inaccettabile soccombere. A delinearsi sono sviluppi capaci di sovvertire l’ambiente geopolitico, oltre che economico.
Innanzi tutto, il ritorno diretto e indiretto dello Stato nella vicenda economica. La pandemia è infatti globale solo nella sua spietata veste biologica. (Geo)politicamente, essa palesa diversità di approcci, priorità, risposte, su cui occorrerà indagare nei mesi e anni a venire. Fin da subito, manifesta la continua salienza dello Stato come unità organizzativa e garante di ultima istanza delle collettività in esso raccolte. Il che non esclude coordinamento e collaborazione; ma derubrica ad abbaglio la pretesa del suo completo superamento. Un’umanità culturalmente e geograficamente iperdifferenziata che si conta in miliardi, necessita di unità organizzative minime. Il limes non è di per sé foriero di sventure, se individua ambiti di organizzazione e azione che scongiurino il caos e consentano di mettere a sistema intelligenze, risorse, volontà. Abbiamo costruito un Internet globale articolato in nodi e ci siamo scordati che la realtà geopolitica necessita anch’essa di un’architettura di base che consenta agli individui di avere un riferimento culturale, istituzionale, psicologico. Un posto da chiamare casa.
In prospettiva, vi sono qui le premesse per il superamento del paradigma neoliberista. La cui maggiore pecca non sta nel “globalismo”, bensì nella concezione dell’individuo come strumento dell’economia, quando dovrebbe essere l’opposto. Gli appelli ormai ubiqui, in tutti i settori e tutti i paesi (Stati Uniti compresi), perché i governi si facciano garanti di un’economia che rischia il collasso – come del resto già nel 2008 – sono sintomatici di un tabù che pare infrangersi contro l’onda d’urto dell’incertezza. L’estrema alternativa novecentesca, il dirigismo di stampo autoritario, è ricetta già sperimentata e non troppo rimpianta. Sulla possibilità di trovare altre vie tra i due estremi, l’Europa potrebbe – dovrebbe – avere qualcosa da dire, se riuscisse a proferir verbo.
L’Europa. Ad architettura filosofico-fiscale corrente, un importante ritorno dello Stato a garanzia dell’equità e tenuta dei sistemi economici e sociali è impraticabile. Perché implicherebbe (implicherà) la sconfitta dell’ordoliberismo tedesco e della relativa “austerità” contabile. E perché esige un coordinamento politico inedito, essendo la politica economico-fiscale – cioè l’azione dei governi, che nel caso di economie relativamente piccole e fortemente interconnesse come quelle europee non può che essere concertata per reggere nel medio-lungo termine – l’unica in grado di arrivare dove l’azione delle banche centrali non può più.
Su questo, occorre essere assolutamente chiari. O l’Europa finalmente si fa, o si frantuma. In entrambi i casi, questo 2020 non lascerà il tempo che ha trovato.
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