La rapida diffusione della Covid-19 ha
creato una situazione di emergenza, non solo in Italia, che rende
necessario un tempestivo intervento pubblico per sostenere il settore
sanitario e l’economia nel suo complesso.
La violenza di questo shock, manifestatosi nel mezzo di una situazione economica già precaria,
con l’Italia in stagnazione e la locomotiva tedesca in frenata, ha
indotto persino i più ferrei sostenitori dell’austerità ad ammettere la necessità che lo Stato faccia immediatamente ricorso alla spesa in deficit
per arginare l’imminente crisi. Quando a rischiare non sono solo i
lavoratori e i loro salari, ma anche i profitti di imprese e banche, il
debito pubblico è il benvenuto: i soldi, che non ci sono mai, come per
miracolo ora ci sarebbero.
Alfieri del neoliberismo e maître à penser dell’austerità di matrice europea (Mario Monti, Carlo Cottarelli, Elsa Fornero, Alesina e Giavazzi, e la neo-insediata commissaria Von der Leyen) incoraggiano i governi a fare tutto il possibile, ricorrendo al malum necessarium della spesa in deficit, contro la Covid-19.
Possiamo dire che la prima vittima del nuovo virus sia dunque l’austerità? Purtroppo, no.
Perché l’austerità è un progetto politico teso a trasformare la nostra
organizzazione economica e sociale che va ben oltre le politiche
restrittive imposte negli anni recenti: questo disegno di governance
può ricorrere all’uso spregiudicato della crisi quando deve scardinare
le conquiste di decenni di lotte dei lavoratori, lo stato sociale, i
diritti e i salari, ma può anche far ricorso a strumenti di
stabilizzazione, quando ritiene che la crisi possa compromettere i
profitti di imprese e banche. In sintesi, l’austerità non è solo
recessione: l’austerità è controllo e disciplina, e in questo frangente
proverà ad arginare la caduta della produzione senza per questo
ammorbidire un modello di crescita che continuerà a fondarsi sulla precarietà, lo sfruttamento e la disoccupazione di massa.
Dalla crisi greca all’epidemia di
Covid-19, il sistema produttivo non è mai stato infatti abbandonato al
totale fallimento: i soldi sono sempre stati trovati, ma solo alla fine, all’ultimo momento, e a determinate condizioni. La Grecia, a tal proposito, è un caso di scuola:
il tempismo con cui le autorità monetarie europee, BCE in primis,
gestiscono fin dal principio le crisi, rivela la natura intima del
meccanismo dell’austerità. Il sostegno finanziario è necessario affinché
il sistema produttivo non collassi e continui a produrre, ma quel
sostegno deve essere condizionato all’applicazione delle politiche di austerità,
delle riforme, cioè quell’insieme di misure economiche che modellano il
sistema economico favorendo il profitto a discapito dello stato
sociale.
Nel contesto europeo, la politica monetaria è usata come un’arma per disciplinare i singoli Paesi e costringerli sulla via dell’austerità.
Per questo, gli aiuti finanziari devono essere offerti solo quando la
crisi è acuta, immediatamente prima del collasso, perché solo un Paese sull’orlo del precipizio accetterà qualsiasi condizione
pur di salvare il proprio sistema economico. In conclusione, la cifra
di questa stagione dell’austerità non è la scarsità di risorse in sé, ma
piuttosto il fatto che chi gestisce le risorse ne subordina la
disponibilità all’attuazione di un preciso progetto politico: i soldi ci sono sempre,
se accetti di tagliare lo stato sociale, i salari, le pensioni. Per
questo, i soldi ci vengono concessi solo quando abbiamo l’acqua alla
gola. O il virus alle porte.
Proviamo a riportare questa lettura ai
fatti di questi giorni. Il 12 marzo scorso, quando l’Italia era l’unico
paese europeo in piena emergenza Covid-19, il Presidente della BCE Lagarde,
ad un giornalista che le chiedeva se l’autorità monetaria europea
avrebbe fatto qualcosa per contenere lo spread, dunque per aiutare
l’Italia a finanziare il proprio debito pubblico a costi moderati, ha risposto candidamente:
“useremo tutta la flessibilità a nostra disposizione, ma non siamo qui
per contenere gli spread”.
Fondi speculativi e banche d’investimento
hanno subito interpretato queste parole come la conferma che la BCE si sarebbe comportata come sempre ha fatto,
negando qualsiasi aiuto al Paese in difficoltà, e dunque hanno iniziato
a vendere titoli italiani, nella consapevolezza che il loro valore non
sarebbe stato difeso dalla BCE. Prima che la Lagarde rispondesse a
questa domanda, verso le 14:40, i BTP decennali mostravano un rendimento
dell’1,22%, balzato dopo la dichiarazione all’1,88%. Contro le parole
del Presidente della BCE è addirittura intervenuto il Capo dello Stato
Mattarella, in un gioco delle parti
che – come accadeva ai tempi di Salvini – si sviluppa a uso e consumo
dell’opinione pubblica, senza alcun riflesso concreto. Difatti, la Lagarde ha detto la pura e semplice verità, ribadendo quello che prima di lei Trichet e Draghi hanno operativamente messo in pratica dall’inizio della crisi europea: la BCE non presta soldi ai Paesi in difficoltà, il suo compito non è quello di contenere il costo del debito pubblico dei singoli Paesi.
Ma la Lagarde è stata ancora più precisa nella sua dichiarazione.
Nessuno sembra infatti aver prestato attenzione alla chiosa, che
concludeva la risposta della Presidente della BCE sul tema del
contenimento degli spread: “Questa non è né la funzione né la missione della BCE; vi sono altri strumenti per fare questo, altri attori che possono gestire questo problema”.
A cosa allude la Lagarde? Evidentemente,
allude agli strumenti sviluppati negli anni della crisi per erogare
prestiti agli Stati in difficoltà, cioè esattamente per contenere il
costo del debito pubblico dei Paesi che finiscono nel vortice della
speculazione e dell’instabilità finanziaria. Già, perché in tutto l’arco
della lunga crisi europea la BCE non ha mai prestato il denaro
direttamente agli Stati in difficoltà. L’architettura istituzionale
europea ha introdotto, mentre la casa era in fiamme, nuovi attori e nuovi strumenti,
per l’appunto, specificamente destinati alla gestione delle crisi del
debito pubblico.
In principio fu il Greek Loan Facility (GLF), un fondo
destinato a raccogliere le risorse da prestare alla Grecia, a condizione che il Paese sottoscrivesse un Memorandum of Understanding,
cioè un documento in cui si impegnava ad applicare rigidissime
politiche di austerità negli anni a venire. È la nascita del paradigma
europeo della condizionalità: lo strumento del GLF ha poi subito
numerose evoluzioni (EFSM, EFSF), intervenendo in Portogallo, Irlanda e
Spagna sotto stretta condizionalità, ed oggi esiste sotto forma di Meccanismo Europeo di Stabilità, il fatidico MES di cui tanto si è discusso nei mesi scorsi. Ecco spiegate le parole non troppo criptiche della Lagarde: se volete salvarvi dall’instabilità finanziaria e dalla speculazione, accomodatevi pure, chiedete aiuto al MES.
Richiesta che comporterebbe la sottoscrizione di un Memorandum of
Understanding da parte dell’Italia, l’impegno a realizzare negli anni a
venire una serie ulteriore di riforme di precarizzazione del mercato del
lavoro, tagli alla spesa pubblica, aumenti delle tasse, smantellamento
dello stato sociale, sotto la minaccia di non ricevere la tranche
periodica di aiuti. È questo l’ennesimo addentellato mefistofelico
dell’austerità, a cui dovremmo sottoporci per avere subito quei soldi
che ci servono ad evitare, oggi, il collasso economico e sociale
paventato dall’emergenza sanitaria.
Le avanguardie italiane di questo ricatto sono già all’opera per caldeggiare l’operazione. Sul Sole 24 Ore, Galli e Codogno
hanno indicato chiaramente la via. È in procinto di essere varata una
riforma del MES che rende più agile il ricorso a quelle linee di credito
precauzionale in favore di Paesi che non hanno ancora perso l’accesso
ai mercati. Si tratterebbe di uno strumento perfetto, secondo Galli e
Codogno, per la situazione italiana attuale: si firma un Memorandum e si
ottiene un prestito che evita la spirale speculativa. Sarebbe
sufficiente posporre, a detta di Galli e Codogno, l’attuazione del
Memorandum alla fine dell’epidemia (che anime candide!), in modo da
evitare di ammazzare il paziente con la medicina, e il gioco sarebbe
fatto. In questo modo, la riforma del MES viene presentata come
salvifica per il nostro Paese, mentre fino a poche settimane in molti, persino lo stesso Galli, sottolineavano i possibili rischi per l’Italia del nuovo modello di MES.
Tornando all’emergenza innescata dalla
pandemia, un disastro che pare aver messo tutti d’accordo sulla
necessità di fare spesa in deficit e debito, occorre fare attenzione
alle modalità con cui si contrae questo nuovo debito, perché la
fregatura sta nelle condizioni a cui avremo accesso a tali risorse: puoi
fare debito se trovi qualcuno disposto a prestarti denaro, e dunque
puoi indebitarti solo alle condizioni richieste dai creditori.
Esistono essenzialmente due tipologie di creditori per lo Stato. La prima tipologia è il mercato:
uno Stato emette titoli del debito pubblico sui mercati finanziari
(BOT, BTP) che vengono sottoscritti da banche e fondi di investimento, i
quali trovano tanto più conveniente prestare il loro denaro quanto
maggiore è il tasso di interesse che possono ottenere. Da quando è esplosa
l’epidemia, da quando cioè si è reso evidente che l’Italia avrebbe
avuto bisogno di raccogliere risorse aggiuntive sui mercati, gli
investitori privati hanno preteso un tasso di interesse sempre più
elevato, dallo 0,8% di inizio febbraio a oltre il 2,4% di questi giorni
sui titoli di Stato decennali.
Il fatidico spread, che misura la
differenza tra il costo del debito pubblico italiano e quello tedesco,
si è ampliato nello stesso intervallo temporale da poco più dell’1% a
oltre il 2,8% della metà di marzo: questo è il sovrapprezzo, rispetto
alla Germania, che i mercati pretendono dall’Italia per comprare BTP. Il
mercato, in parole povere, si sta comportando da mercato, con banche e
fondi di investimento che ci prestano denaro, in questo momento di
difficoltà, ad un tasso d’interesse sempre più alto, come farebbe
qualsiasi usuraio che si rispetti.
Sarà allora il caso di guardare alla seconda tipologia di creditore
a cui lo Stato può affidarsi per emettere debito pubblico, la banca
centrale, cioè l’autorità pubblica che ha il potere di creare moneta.
Dovremmo ormai sapere tutti che la BCE non può prestare soldi
direttamente agli Stati; al più, acquista titoli di Stato sui mercati
(il cosiddetto Quantitative Easing,
QE), cioè titoli già emessi dai governi dei vari paesi e detenuti da
banche e fondi di investimento, ma lo fa solo per amministrare la
stabilità finanziaria dell’insieme dell’Unione monetaria. Nella
notte tra il 18 e il 19 marzo, la BCE ha introdotto una nuova misura
straordinaria atta a fronteggiare l’instabilità finanziaria. Si
tratta di un vero e proprio QE, parallelo al programma originario
(l’Asset Purchase Programme, APP), denominato Programma di acquisti per
l’emergenza pandemica (PEPP dall’acronimo inglese) che prevede
l’acquisto di 750 miliardi di euro di obbligazioni pubbliche e private
entro la fine del 2020.
Il nuovo programma ricalca esattamente le
modalità operative del vecchio APP, e può quindi essere considerato a
tutti gli effetti un rafforzamento del QE. Oggi la BCE può opporre alle vendite speculative una massa molto più consistente di acquisti,
in modo da contenere la caduta delle quotazioni dei titoli di Stato e,
con essa, il costo del debito pubblico per i governi europei. In parole
povere, dopo il varo del PEPP la BCE esercita un dominio indiscusso e
palese sui mercati finanziari, perché dispone di una capacità di
acquisto che non è commensurabile a quella degli speculatori. Questa
potenza di fuoco permette alla BCE, oggi più che mai, di decidere a tavolino il tasso di interesse sul debito pubblico di ciascun Paese europeo.
Per rendersi conto di questa capacità, basta guardare alla dinamica
dello spread tra BTP e Bund: mentre nei giorni scorsi questo valore
oscillava costantemente (tra 245 a 280 il 17 marzo, addirittura tra 240 e
320 il 18 marzo), nel giorno in cui è stato varato il PEPP lo spread si
è miracolosamente fissato nell’intorno del valore 200. Un equilibrio
che non ha evidentemente nulla di naturale, ma è il risultato
dell’azione della BCE, che sta esercitando la sua autorità monetaria in
tutta la sua potenza.
Il fatto che la BCE possa
controllare a suo piacimento gli spread non significa, però, che questo
potere si tradurrà in un’azione conseguente. La BCE potrebbe,
in linea teorica, esercitare pienamente la sua capacità di tenere a bada
gli spread attraverso un QE potenziato, consentendo a governi come
quello italiano di indebitarsi per decine di miliardi di euro ad un
tasso calmierato e fare fronte, così, agli effetti recessivi
dell’emergenza Covid-19. Sarebbe bellissimo, ma non per questo meno
improbabile. Questo scettiscismo non sembra essere prerogativa nostra o
di chi ha in uggia la gabbia dell’austerità. Lo stesso Governo italiano
sembra pensarla allo stesso modo: il Tesoro, infatti, non sta emettendo
nuovo debito pubblico per reperire sul mercato, sotto lo scudo del QE,
le risorse necessarie a fronteggiare l’emergenza. Evidentemente, a Palazzo Chigi e dintorni non sono così certi che la BCE intenda proteggere con il suo scudo ulteriori manovre in deficit. A conferma di ciò, il Presidente del Consiglio Conte, piuttosto che azzardarsi a contrarre nuovo debito sui mercati, ha chiesto all’Unione Europea di mettere in campo le risorse del MES per fronteggiare l’emergenza. Cosa teme Conte?
Ci sembra molto probabile che a Francoforte prevarrà la tentazione di sfruttare questo contesto per rafforzare la disciplina delle singole economie nazionali,
e questo il Governo italiano lo sa bene. Si profila dunque un secondo
scenario ben più plausibile: l’intervento della BCE si limiterà a
contenere gli effetti più deteriori e drammatici della pandemia,
mantenendo comunque l’Italia (e qualunque altro Paese si facesse venire
strane idee) sotto il ‘controllo’ del ricatto del debito. Il QE, secondo
le peggiori tradizioni, sarebbe usato non per fermare la speculazione
ma, piuttosto, per governarla, guidarla e calibrarla meglio ai fini
dell’imposizione dell’austerità. Questo significa che, se l’Italia
provasse a indebitarsi massicciamente per uscire dalla recessione in
tempi rapidi, lo spread tornerebbe a crescere immediatamente, e l’Italia
si troverebbe nuovamente in balia dell’instabilità finanziaria. Ecco
allora che si palesa l’unica via d’uscita lasciata aperta al Paese:
accettare la riforma del MES, e dunque l’imposizione di una
condizionalità che garantirà alle istituzioni europee la rigida
applicazione dell’austerità in Italia. Sembrerebbe la strada che Conte
ha intrapreso dal giorno successivo al varo del nuovo QE...
Così, dopo aver sofferto l’epidemia con un sistema sanitario devastato da decenni di tagli e definanziamenti, ci troveremmo condannati a nuovi e ulteriori sacrifici per i prossimi anni. La trappola è predisposta.
Otterremmo, oggi, il denaro necessario a superare la burrasca innescata
dalla Covid-19, ma ci condanneremmo a lustri di rigida austerità. Una
tragica emergenza sanitaria trasformata in un’opportunità d’oro per
estendere il controllo delle istituzioni europee sull’economia italiana,
costringendo il nostro Paese nella camicia di forza dell’austerità per i
prossimi anni. La borsa e la vita.
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