Benyamin Netanyahu ieri è tornato a proclamarsi vincitore del
voto del 2 marzo e a mettere ai margini la minoranza palestinese con
cittadinanza israeliana (21% della popolazione) che ha visto crescere la
sua rappresentanza alla Knesset (da 13 a 15 seggi). “Abbiamo
vinto tra i (partiti) sionisti, gli arabi non sono parte
dell’equazione”, ha affermato ieri il premier israeliano rivolgendosi ai
rappresentanti delle formazioni di destra nazionaliste e religiose
alleate del Likud, il suo partito.
Eppure per il premier israeliano non sono tutte rose e fiori. Proprio il successo della Lista araba ha ridimensionato la vittoria delle destre
rendendo più complicata la scalata alla maggioranza di Netanyahu. La
Commissione elettorale deve ancora verificare l’1 per cento dei voti e
si attende il dato ufficiale delle elezioni. Gli esperti però non
prevedono scossosi, quindi il blocco delle destre ha ottenuto
solo 58 seggi, tre in meno di quelli necessari per dare vita a una
maggioranza di governo.
Lo stallo politico in cui si ritrova Israele dalla fine del 2018, aperto dal partito ultranazionalista laico Yisrael Beitenu, guidato da
Avigdor Liebarman (nemico giurato degli palestinesi in Israele), non è
stato superato. E Netanyahu ora deve affrontare anche un altro ostacolo. Benny Gantz, leader della lista centrista Blu Bianco, avversaria del Likud, intende dare appoggio a una
proposta di legge che, se approvata, impedirà a una persona incriminata
di poter diventare primo ministro e ad un premier in carica di formare
un nuovo governo. Legge che prende di mira proprio Netanyahu incriminato lo scorso novembre per corruzione, frode e abuso d’ufficio. “Gantz
vuole rubarmi la vittoria elettorale, la sua mossa mina le basi della
democrazia. Non ci riuscirà, il popolo israeliano ha espresso
chiaramente la sua volontà politica”, ha protestato il premier. Gantz gli ha risposto invitandolo “a bere un bicchiere d’acqua e ad attendere i risultati ufficiali delle elezioni”.
La legge in cantiere non è l’unica difficoltà spuntata sulla strada del primo ministro. Ieri si è appreso che il capo dello stato israeliano Reuven Rivlin, secondo i tempi previsti dalle legge elettorale, dovrà
affidare l’incarico per la formazione del nuovo governo il 17 marzo,
proprio il giorno in cui il Netanyahu andrà sotto processo. Ciò
mentre crescono le polemiche per il tentativo che il Likud sta facendo
per convincere – dietro la promessa di ministeri e altri incarichi di
rilievo – alcuni deputati eletti con i partiti di opposizione ad unirsi
alla destra in modo da permettere la nascita di una maggioranza di
governo guidata da Netanyahu.
Nel quartier generale dell’Autorità nazionale palestinese
(Anp), si seguono con attenzione e una evidente delusione gli esiti
delle elezioni israeliane. Il presidente Abu Mazen in silenzio
auspicava un successo dell’opposizione e l’uscita di scena di Netanyahu,
suo nemico giurato. Sebbene anche Benny Gantz, un ex
capo di stato maggiore, si sia detto favorevole al piano di Donald Trump
che prevede l’annessione a Israele di una buona porzione della
Cisgiordania, l’Anp comunque ritiene il capo di Blu Bianco un interlocutore più ragionevole di Netanyahu.
In queste ore cresce la pressione della popolazione palestinese a sostegno della ripresa dei contatti tra l’Anp e Hamas
per arrivare all’unità nazionale che si è interrotta 13 anni fa con gli
scontri armati tra il partito Fatah e il movimento islamico (che da
allora controlla la Striscia di Gaza). La Russia, sempre più
protagonista in Medio Oriente, sembra intenzionata a recitare un ruolo
anche nel riavvicinamento tra Anp e Hamas. Nei giorni scorsi il
ministro degli esteri Lavrov ha ricevuto a Mosca il capo di Hamas,
Ismail Haniyyeh, e, secondo alcune fonti, potrebbe organizzare nei
prossimi mesi una conferenza per favorire la riconciliazione nazionale
palestinese.
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