«Il governo commette un grave errore se bada solo alle politiche di
contenimento del virus e non tiene conto dei loro effetti recessivi
sull’economia. Quanto più si insiste con quarantene, serrate e chiusure
di scuole e uffici, tanto più bisogna attivare un piano di investimenti
pubblici per il rilancio economico». Il professor Emiliano Brancaccio,
economista dell’Università del Sannio, lancia l'allarme dopo la chiusura
delle scuole e gli altri provvedimenti del governo.
Lei sostiene che i rischi di una nuova recessione internazionale
erano concreti già prima del coronavirus. In che misura la diffusione
del covid-19 può aggravare la situazione?
«Già nell’outlook dello scorso ottobre il Fmi segnalava un aumento delle
probabilità di caduta della crescita mondiale e un’accentuazione di
alcuni rischi sistemici, dalla forte esposizione delle istituzioni
finanziarie non bancarie all’espansione delle bolle speculative sui
mercati azionari. Il quadro economico era dunque già molto complicato.
Ovviamente il coronavirus aggraverà la situazione, come ormai
riconoscono sia l’Fmi che l’Ocse.»
È possibile fare qualche previsione?
«Stando a una ricerca pubblicata qualche anno fa dal direttorato
generale della Commissione europea, una ipotetica pandemia che abbia un
tasso di mortalità simile a quello stimato per il coronavirus potrebbe
determinare un calo del Pil europeo breve ma pesante, del 2%
in media e fino a una caduta estrema del 4%. Altri studi
fanno previsioni meno pessimistiche. Però tutte le analisi sollevano un
problema rilevante, che riguarda la gestione dell'epidemia».
Quale?
«Se la politica di contenimento del virus è fatta di quarantene,
chiusura di scuole e uffici e blocchi stradali, si creano due effetti
contrastanti: da un lato può darsi che la propagazione del virus venga
limitata, ma dall’altro lato si interrompono i circuiti della produzione
e della spesa e si favorisce così la propagazione della recessione
economica. In termini approssimativi, potremmo dire che per ogni punto
di abbattimento del tasso di riproduzione del virus a colpi di
quarantene e serrate, c’è il rischio che il tasso di disoccupazione
aumenti di mezzo punto».
Un bel dilemma per il governo. Come se ne esce?
«Un criterio di buon senso consiste nel seguire la vecchia regola aurea
del premio Nobel Jan Timbergen: se vuoi perseguire due obiettivi
contrastanti, non ti basta un solo strumento di policy ma te ne servono
almeno due. Tradotto nel nostro caso, significa che se combatti due
“virus”, quello della propagazione della malattia e quello della
recessione economica, allora ti servono come minimo due “anti-virus”.
Ossia, più attui blocchi e serrate per arginare covid-19, più devi
aumentare gli investimenti pubblici per tenere la disoccupazione almeno
invariata».
In effetti il Consiglio dei ministri prepara un pacchetto di misure fino a 7,5 miliardi. È sufficiente?
«No. Considerato che una parte delle risorse sarà assorbita
dall’emergenza sanitaria, direi che a condizioni date urge un piano di
investimenti pubblici di almeno 25 miliardi in Italia, coadiuvato da
interventi ancor più ampi a livello europeo, tra cui misure monetarie
per tenere anche i tassi d’interesse sul debito italiano sotto i tassi
di crescita».
Ma questi sono interventi che ci porterebbero ben oltre la
flessibilità di bilancio consentita dalle regole europee. Non si rischia
un conflitto con Bruxelles?
«L’intera comunità scientifica reputa quelle regole sbagliate in
situazioni normali, figuriamoci nel corso di questa emergenza. “Unione
europea” dovrebbe significare che i problemi sistemici si affrontano in
un’ottica unitaria e coordinata tra i paesi membri. Finora non è andata
così: dalle crisi bancarie alle crisi migratorie, hanno sempre prevalso
comportamenti scoordinati e conflittuali e la reputazione delle
istituzioni europee ne è uscita male. Se prevalesse l’inettitudine
politica anche nel caso del coronavirus sarebbe l’ennesima onta, dal
punto di vista simbolico forse persino peggiore delle precedenti. Se
questa emergenza sanitaria viene accompagnata da una politica economica
inadeguata, potrebbe diventare un punto di non ritorno: non solo per il
governo nazionale ma anche per i destini dell’unificazione europea».
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