Dalla banalità del male, termine coniato da Hannah Arendt in seguito alla complicità della ‘gente normale’ nello stermino nazista del popolo ebreo, alla banalità della violenza il passo è breve. Lo ha ricordato persino Emmanuel Macron venerdì scorso in occasione dell’incontro con l’Associazione presidenziale della stampa.
Dopo il tempo di ‘confinamento’ dovuto alla pandemia, si assiste ad una intensificazione e ‘banalizzazione’ della violenza quotidiana, ha affermato Macron. Una non sta senza l’altra perché male e violenza sono come il frutto da cui si riconosce l’albero. Sono in fondo interscambiabili malgrado i patetici tentativi di redimere la violenza come necessaria o quanto meno tappa transitoria per un futuro differente.
Tra un paio di settimane saranno due anni da quando Pierluigi Maccalli, missionario nel cuore della savana nigerina, è stato portato via, rapito, tolto alla sua gente, creando una ferita che non arriva a rimarginarsi. Come lui altre centinaia di persone del Paese, rapite, scomparse, e alcune tornate dopo aver pagato il riscatto, obbligate ad integrare i gruppi armati terroristi, violentate e ridotte in oggetti di scambio.
La banalità della violenza è talmente pervasiva da trasformare la percezione della realtà e dunque facendo apparire come ineluttabile la quotidiana dose di violenza che si assume come una parte costitutiva. L’amica Zeyna, a cui è stato asportato un seno, oltre ad essersi pagata l’operazione, il soggiorno in ospedale (ridotto se la camera è a due), sborsa anche il necessario per la medicazione diaria della ferita. I guanti, le siringhe, i prodotti da utilizzare e quanto occorre per sapere l’esito dell’esame della parte asportata.
Una violenza che precede, accompagna e affossa ogni velleità di cura e guarigione quando non ci sono i mezzi per sostenere le spese.
La violenza è da tempo banalizzata alle frontiere, dove abusi di ogni tipo nei confronti di chi viaggia, sono parte del rischio legato al commercio di beni e al transito dei migranti. Malgrado la chiusura, ancora in vigore, si transita a proprio rischio e pericolo e per la maggior gloria di doganieri e altri simili faccendieri di frontiera.
Nell’ambito educativo la violenza si è istituzionalizzata da quando, negli anni ’80, coi programmi di aggiustamento strutturale della Banca Mondiale, si sono smantellate le scuole statali di ogni grado aprendo la via a quelle private che fioriscono sull’abbandono delle prime.
Le strade di Niamey, la capitale, sono ogni giorno percorse, trivellate da centinaia di bambini che, in nome di un’educazione ‘coranica’ e in barba alle leggi in vigore, sono obbligati alla mendicanza sotto pena di digiuno e percosse.
Questa violenza, banalizzata perché assunta come parte del paesaggio cittadino, diventa gradualmente invisibile salvo apparire sotto altre spoglie ai nuovi semafori della città. Appena installati e godendo di una relativa accalmia studentesca legata al Covid, contano i secondi di attesa e dunque creano code di macchine prima inesistenti.
Venditori di fazzoletti, giocattoli, piscine e anatre di plastica, guinzagli per cani, prodotti per smacchiare le zanzare, detersivi per auto e miriadi di pulitori di parabrezza, si moltiplicano in proporzione con la crisi economica che rende il settore ogni volta più informale. La violenza scompare quando il semaforo passa al verde e torna la normalità fino al semaforo successivo (se funziona).
La banalità della violenza si avvale della collaborazione del sacro campo umanitario. Numeri, tabelle, cifre, centri, case, transiti, questionari, progetti, rafforzamento di capacità e occasionali rivolte di migranti e rifugiati. Il Paese non ha affatto bisogno di ‘eroi’ umanitari. Il drammaturgo Bertold Brecth definiva ‘sfortunata la terra che ha bisogno di eroi’.
Ciò è conseguente alla dichiarazione costituzionale del Niger che, all’articolo 4, ricorda che la sovranità appartiene al popolo. La prima e frontale violenza ‘banalizzata’ è proprio quella di derubarlo di questa esclusiva e sovrana dignità. Ciò a cui abbiamo assistito, impotenti per la maggior parte del tempo e inconsapevoli spettatori per il resto, è stata la graduale e sistematica confisca della sovranità popolare.
Cancellati i giovani, i contadini, le donne e, in generale i poveri, con la complicità esteriore di chi finanzia una classe politica predatrice, non rimane che prendere atto della miseria nella quale il Paese è ormai da anni prigioniero. L’attualizazione della ‘Pedagogia degli oppressi’, opera di Paulo Freire, potrebbe ridare il coraggio della dignità.
Qui come altrove questo porta il nome di Resistenza.
Niamey, agosto 2020
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