Il ritiro dalla Borsa della Benetton, l'azienda simbolo della famiglia trevigiana che ha inondato il mondo di maglioni colorati, ha un significato che va oltre le vicende finanziarie della ricca dinastia creata dai quattro fratelli veneti. Le vere ragioni dell'addio alla Borsa, dopo 26 anni, del marchio simbolo dei Benetton non sono state spiegate.
La famiglia fa trapelare che c'è bisogno di ristrutturare l'azienda tessile presieduta da Luciano Benetton e smentisce che sia prevista la vendita. In realtà l'obiettivo dell'operazione potrebbe proprio essere una cessione, forse mascherata da fusione con un gruppo straniero.
Operazioni che potrebbero essere compiute con maggior tranquillità se
l'azienda non è quotata e non ci sono piccoli azionisti che possano
disturbare il manovratore.
Ma il significato autentico dell'annunciato ritiro della Benetton da piazza Affari è quello di una
crisi della famiglia nell'attività originaria, un abbandono
dell'industria e una preferenza per le attività legate alla rendita. I segni di questa tendenza erano visibili già da anni.
I Benetton hanno da tempo diversificato, cioè investito
in attività lontane dalla produzione di maglioni e abbigliamento, il
cui peso è rimasto inchiodato a circa due miliardi di euro di fatturato
all'anno, sugli 11.638 milioni di ricavi del gruppo nel 2010, con 260
milioni di utile netto.
Il cuore dei Benetton batte per gli Autogrill, che
svolgono attività di ristorazione di massa lungo le autostrade, negli
aeroporti di tutto il mondo, nelle grandi città, per le autostrade con
Atlantia, che gestisce più di tremila chilometri di rete a pedaggio in
Italia e il primo gennaio di ogni anno aumenta inesorabilmente le
tariffe a carico degli automobilisti, anche se gli investimenti per
migliorare la rete vanno a rilento.
Basta ricordare che la costruzione della terza corsia tra Bologna e
Firenze, un tratto di 70 chilometri, non è ancora completata malgrado
questo impegno sia stato assunto dai Benetton quando l'ex gruppo
Autostrade è stato privatizzato dall'Iri, alla fine del 1999. Andare da
Firenze a Bologna è come affrontare una pericolosa gimkana.
L'intera autostrada del Sole, un tracciato di 754 chilometri da Milano a
Napoli, è stata costruita dall'ex società Autostrade quando apparteneva
allo Stato, all'Iri, dal 1956 al 1964, in soli otto anni. Ad essere
maliziosi, ma neppure tanto, si potrebbe osservare che più
Gilberto Benetton ritarda gli investimenti e quindi le spese nelle
autostrade, maggiori sono i profitti che porta a casa perché i pedaggi
aumentano lo stesso.
Gli interessi dei quattro fratelli di Treviso si estendono alla gestione delle grandi stazioni ferroviarie, dove sono alleati del costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, della Pirelli e delle ferrovie francesi (Sncf), fino al controllo degli aeroporti:
Fiumicino, il primo scalo italiano, è controllato attraverso Gemina,
come Ciampino, altre partecipazioni sono possedute negli aeroporti di
Firenze, Torino, Bologna. A Roma è pronto il piano per il raddoppio di
Fiumicino. Quando decollerà lo Stato dovrà comprare i terreni agricoli
di Maccarese, che appartengono ai Benetton. Per la famiglia trevigiana sarà un affare gigantesco.
Hanno comprato la tenuta agricola in una lontana privatizzazione, nel
1998, al prezzo equivalente a quasi 47 milioni di euro: oggi si stima
che i terreni valgano almeno il quadruplo.
I Benetton hanno aderito, senza entusiasmo, anche all'invito di Silvio Berlusconi nel 2008 a partecipare alla Cai,
la cordata dei patrioti guidata da Roberto Colaninno e da banca Intesa
di Corrado Passera (ora superministro dello Sviluppo economico) che ha
comprato la polpa dell'Alitalia a prezzi stracciati dallo Stato.
Atlantia ha investito 100 milioni, un investimento in perdita già
svalutato per 25 milioni dalla società autostradale.
Ma il sacrificio è stato ampiamente ripagato dagli aumenti dei pedaggi e da altri vantaggi. Nel portafoglio dei trevigiani c'è anche il controllo di Impregilo,
il primo gruppo di costruzioni italiano, insieme a un altro signore dei
pedaggi, il piemontese Gavio, mentre è uscito di scena a causa dei
debiti il terzo socio di comando, il discusso immobiliarista e
finanziere Salvatore Ligresti. Tutti e tre sono tra i capitani coraggiosi intervenuti nella discussa operazione Cai-Alitalia.
Lontani dalla tradizione industriale delle origini sono anche gli
investimenti nella finanza. I Benetton sono entrati nel salotto buono in
cui siedono i protagonisti del fragile potere finanziario italiano.
Archiviata, in forte perdita, l'avventura in Telecom Italia dove
approdarono nel 2001 insieme alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera, i Benetton possiedono il 2,16 per cento di Mediobanca, lo 0,94 per cento delle Assicurazioni Generali, il 4,77 della Pirelli. Sono presenti in forze nell'editoria, possiedono il 5 per cento della Rcs, editore del Corriere della sera e il 2 per cento del gruppo Il Sole 24 Ore,
che pubblica il quotidiano economico controllato dalla Confindustria:
questi investimenti sono in perdita, ma assicurano potere e rispetto
alla famiglia di Ponzano Veneto. Che ha appena spalancato le
porte del consiglio di amministrazione di Atlantia a Monica Mondardini,
amministratore delegato del gruppo L'Espresso, che pubblica il settimanale omonimo e il quotidiano la Repubblica. C'è un conflitto d'interessi in tutti questi intrecci?
Ai Benetton questa obiezione non interessa. Con le manovre nell'alta
finanza, pensate che ai piani alti dell'impero, nella loro holding per
le infrastrutture, la lussemburghese Sintonia, hanno imbarcato azionisti
come la Goldman Sachs, Mediobanca e il fondo sovrano di Singapore Gic,
cosa volete che gli importi dei maglioncini colorati? Una produzione
che li ha resi famosi nel mondo ma che ormai è in larga parte
delocalizzata all'estero, nei soliti paesi a basso costo della
manodopera, all'insegna del declino dell'industria (e del capitalismo)
italiani.
Fonte.
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