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01/03/2012

Ilva, la guerra di Taranto

L’uscita per Taranto, in realtà, è segnalata due volte. Tamburi, avverte il cartello. Sotto, rosa, un altro: cimitero.

Nei giorni di vento, l’aria si fa ruvida di polveri. Danzano argentee nella sera, i bambini le chiamano brillantine e allungano le mani incantati, li vedi rincorrerle come farfalle immaginarie. Sono le lucciole di Taranto. Arrivano dall’Ilva, cento passi da qui. Negli anni, hanno pennellato tutto di una sfumatura inconfondibile, tra la ruggine e il mattone. Perché sembrano granito rosso, le lapidi del cimitero: era marmo bianco. Ed era pietra, era colore del grano, e ora invece si confonde con il tramonto alle sue spalle, l’acquedotto romano a cui i Tamburi, quartiere operaio, pagina di Dickens, devono il nome. Sono i più anziani, a ricordarlo; i ragazzi ti dicono tamburi non come il tambureggiare di un torrente che scorre, ma i martelli, le fiamme le lame, la presa rovente dell’Ilva. Lo chiamano familiarmente “il minerale”. Asetticamente, parole come un’anestesia. Perché è denso, invece, di parole dense di paura – è l’agente rosa, come in Vietnam. Benzoapirene, diossina arsenico, piombo. Policlorobifenili. Respirare, a Taranto, è un’eutanasia.

Con i suoi 13mila dipendenti, più 4mila di indotto, una produzione fino a 30mila tonnellate al giorno, l’Ilva è la prima acciaieria d’Europa. La ragione per raccontarla è anche solo nei suoi numeri. Quasi milleduecento morti l’anno, cancro, e uno stabilimento a cui nel 2006, quando è cominciata la battaglia, era riconducibile sul totale italiano il 96 percento degli idrocarburi policiclici aromatici, il 92 percento delle diossine, l’85 percento dell’ossido di carbonio, l’85 percento del piombo. Il 68 percento del mercurio, bandito anche dai termometri ma sversato nel mare di Taranto per oltre due tonnellate l’anno. Un anno in cui ognuno dei 210mila abitanti, qui, incamera 2,7 tonnellate tra monossido di carbonio, benzene, ossido di zolfo. Ogni giorno ogni bambino, respirando, fuma l’equivalente di 2,14 sigarette; e su un campetto da calcio, era il 2002, i netturbini hanno rastrellato via 654 tonnellate di polveri.

Per il principale responsabile di tutto questo, Emilio Riva, che dall’Ilva di Taranto fattura anche 10 miliardi di euro l’anno, e come risarcimento alla città si è offerto di piantare un paio di aiuole, il nostro codice penale non ha avuto che l’articolo 674: “getto pericoloso di cose”. Punito con l’arresto fino a un mese, o l’ammenda, fino a lire 400mila.

Sembra Nablus, in cui giri, incontri parli, e ognuno ha un fratello, un padre in carcere in Israele. Ognuno, a Taranto, ha un fratello un padre, un amico vittima dell’Ilva. Ma è una di quelle guerre di cui non scrive nessuno – perché si muore tra vent’anni: e sono guerre in differita. Il primo altoforno è entrato in funzione che era il 1964, la prima manifestazione ecologista è del 1971. Le industrie altamente inquinanti sono nove, e dal 1991 Taranto è “area a elevato rischio ambientale”. La prima condanna in tribunale, per getto di polveri, è del 1982, quindici giorni di reclusione per l’allora direttore dell’allora Italsider. Ma i primi controlli sono del 2007, quando all’Agenzia regionale per l’ambiente si insedia Giorgio Assennato, e riscontra nell’aria diossina fino a 8,1 nanogrammi a metrocubo a fronte di uno 0,1 ottenibile con le tecnologie più avanzate. Nessuno, all’epoca, aveva idea neppure di dove fossero installate le telecamere per il monitoraggio delle emissioni. Quando infine il funzionario, nel filmato di una vecchia inchiesta, trova l’edificio giusto, ai Tamburi, non trova la chiave: e quando infine trova la chiave, scopre che sono telecamere che non sono mai state accese.

Perché quella dell’Ilva non è semplicemente una storia di diossine e tumori. Quasi nove chili, tre volte Seveso. Ma i numeri, in realtà, sono sempre parziali, contraddittori, dispersi; più spesso, inesistenti. O comunque inaccessibili. Nessuno sa con precisione quanti siano, a oggi, i morti di cancro. Né le malattie professionali e gli incidenti sul lavoro. L’unica certezza è che dal 1970 al 2000 l’incidenza delle neoplasie polmonari è raddoppiata, e i tumori alla pleura a Taranto sono quattro volte che nel resto della Puglia. Si comincia a parlare di danno genotossico – la verità è che i numeri bisognerà calcolarli sulle prossime generazioni. Patrizio Mazza, primario di oncologia, stima un aumento dei tumori intorno al 30 percento negli ultimi dieci anni, “e colpiscono persone sempre più giovani”. Ha diagnosticato un adenocarcinoma del rinofaringe, il cancro del fumatore incallito, a un ragazzino di undici anni. Ma per ora, nelle sedi istituzionali, tutti negano l’emergenza. Anche se nessuno offre statistiche: e dopo vari casi di documenti rimasti in quarantena nei cassetti dei ministeri, la sensazione è che in tanti continuino a sapere e non dire. L’Ilva monitora la cokeria, trecento operai: nel 2001 si sono ammalati in quindici – è falciato dal cancro uno ogni venti, lì dentro: e sono tutti ragazzi sui trent’anni. Le riunioni tra enti locali, sindacati e proprietà, alla ricerca di una indefinita “ecocompatibilità” tra la città e la fabbrica, sono rigorosamente a porte chiuse. Il giorno che ha chiesto di ascoltare, Biagio De Marzo, ingegnere dell’Ilva ora sul fronte opposto, è stato cacciato – “terrorista”: bollato così.

La nebbia che sigilla Taranto non è solo drammaticamente reale, ma anche pericolosamente metaforica. Anche se la diossina è così feroce che non si misura in nanogrammi, e cioè miliardesimi di grammo, ma picogrammi, millesimi di nanogrammi. Nel latte materno, la media in Europa è 5 picogrammi per grammo: a Taranto 20 picogrammi, con punte di 40. Il latte in bottiglia, in Italia, può contenere al massimo 6 picogrammi di diossina. Tutti negano l’emergenza. Ma intanto, le madri di Taranto dovrebbero finire sotto sequestro.

Somiglia al Kosovo, Taranto, alle nuove guerre dei nostri tempi, queste guerre umanitarie in cui si viene bombardati per essere difesi, e si coniano e perseguono strani ossimori, le guerre giuste come la ecocompatibilità, e tutto diventa un’alternativa, un gioco a somma zero, tutto un destino da tragedia greca in cui nessuno ha davvero torto, nessuno davvero ragione – perché è inevitabile, ti dicono, “produrre acciaio non è come produrre cioccolato”, spiegano all’Ilva, è necessario un compromesso tra la salute e il lavoro, e come altrove, ti dicono, tra la libertà e la sicurezza, la democrazia e la stabilità. Poi però scopri che il disastro ambientale, in larga parte, non è che l’effetto di mancate precauzioni, mancate manutenzioni. Mancate innovazioni. Scopri che un giorno, era la fine degli anni Settanta, comparve un uomo che sembrava un astronauta, dentro una specie di scafandro. Era un tecnico, racconta Francesco, ed era stato chiamato per l’apirolio, una miscela per il raffreddamento dei trasformatori elettrici. Erano oltre mille; e periodicamente bisognava sostituire l’apirolio. Che è cancerogeno; ma quando nel resto del mondo già si sapeva, racconta, a Taranto veniva sversato senza guanti nei tombini. Perché è una storia di emissioni, questa, ma soprattutto omissioni. Di polveri spazzate via con la scopa. Il rosa dei Tamburi arriva dai parchi minerali: sono colline alte dieci metri, in realtà, lunghe centinaia: è sabbia di ferro: e persino in Cina si copre, per evitare si disperda in aria. L’Ilva si appella alla crisi. Ma nel siderurgico a essere cambiati sono solo i prezzi delle materie prime, e quindi i margini di profitto: l’Ilva non teme di fallire, ma di guadagnare meno. Continua a essere in utile. L’assegno da cento milioni che giurava di non avere per inserire dei filtri nelle ciminiere, e salvare Taranto, è stato prontamente staccato per salvare Alitalia.

Nel suo settore, rimane ai vertici europei e mondiali. Ma l’Ilva è salda anche ai vertici di classifiche meno patinate, come quella italiana per gli incidenti sul lavoro – uno ogni quindici operai. Sono quelle che chiamano morti bianche: come le morti in culla. Morti improvvise, senza ragione e dunque senza responsabilità. Un piede in fallo, e giù da un’impalcatura. Distrazione, fatalità. Destino. Produrre acciaio non è come produrre cioccolato. Giovanni Satta è morto il 27 ottobre 2005. Perché logica chiede che una demolizione sia eseguita dall’alto verso il basso: ma segando i pilastri alla base, si fa prima. E si vincono gli appalti. Anche se poi ti precipita in testa un solaio di cemento. Perché il primo responsabile, in realtà, è il tempo. Si lavorava con ritmi sostenibili, e quindi con più attenzione, racconta Ernesto. E soprattutto si lavorava in squadra. Oggi, invece, non solo la formazione è minima: è teorica. Mentre in fabbrica, racconta, è fondamentale il sapere operaio. L’esperienza: osservare, imparare dagli altri. Cosa difficile con un contratto di tre mesi, sei mesi. O al nero, come è prassi nella giungla dell’indotto. Tre giorni. Sei giorni. Con la privatizzazione, i primi anni ogni anno all’Ilva cambiava la metà dei dipendenti. Distrazione, destino. Precarietà. Eppure, come sempre, è inutile cercare cifre certe. Ufficiali. Inutile bussare all’Inail. Secondo il suo direttore, Giuseppe Gigante, il problema non è il rispetto delle norme di sicurezza da parte dell’azienda, ma la condotta dei lavoratori. Quello critico, non a caso, è il lunedì: perché il sabato e la domenica, sostiene, tirano tardi. E comunque, sono in pochi a denunciare. La strategia dell’Ilva è assumere i figli, i fratelli – a condizione, ovviamente, di tacere. Ti dicono questo è il prezzo dello sviluppo, come questo, altrove, è il prezzo della pace – poi scopri che questo è il prezzo del profitto e del dominio.

E ti dicono, soprattutto, che sono questioni complesse, ti dicono che bisogna affidarsi agli esperti. Poi però scopri che tutto è cominciato dall’ostinazione di un professore di lettere diventato studioso di chimica, si chiama Sandro Marescotti e ricorda Nichi Vendola, quando era ai Tamburi in campagna elettorale: non radicale, precisava di sé, ma radicato, “estremista solo nell’amore per la mia terra”. Per avere trovato diossina nelle cozze è stato denunciato per “procurato allarme”, è la seconda volta, dopo il procurato allarme sul mercurio nel mare. Quando si rivelò un anticipato allarme, e finì archiviato. Agli inizi, chiedeva l’elenco delle emissioni nocive, e si sentiva opporre il segreto industriale. Senza le pressioni della sua PeaceLink, non si sarebbe mai avuta la legge regionale sulla diossina, oggi icona della sinistra di governo – e che in Friuli Venezia Giulia è un semplice decreto firmato da un dirigente dell’assessorato all’Ambiente. Approvata nel 2008, ha recepito i limiti europei di 0,4 nanogrammi per metrocubo indicati dal protocollo di Aahrus del 2004, e ignorati dal decreto legislativo 152 del 2006 che disciplina le emissioni di diossina in Italia. Tocca a Giorgio Assennato vigilare, e comunicare alla Regione eventuali sforamenti: se l’Ilva non rientra nei limiti entro 60 giorni, gli impianti devono fermarsi. Ma lo scontro è ancora in corso. Gli ambientalisti vogliono un monitoraggio in continuo, previsto dalla legge e poi sostituito, attraverso una seconda legge di interpretazione, da singole rilevazioni, minimo tre all’anno. Temono che così l’Ilva abbia modo di prepararsi. Addomesticare i valori. E non solo l’Ilva, forse: a dicembre si è avuta una quarta verifica a venti giorni dalla terza, e la media, che era 0,51, è provvidenzialmente tornata nei limiti. Temono tra la città e la fabbrica non sia convivenza, quella a cui si mira, ma connivenza.

E contestano, tra l’altro, che l’attenzione sia ora tutta sulle emissioni in atmosfera. Perché ti dicono che bisogna affidarsi agli esperti: poi però scopri che la diossina viene assorbita per il 98 percento attraverso l’alimentazione, e che ha senso misurarla non tanto nell’aria, allora, ma nella carne, nel latte nel pesce – scopri che un gruppo di liceali, qui, ha avuto un’idea migliore. Hanno proposto un marchio dioxin free, una specie di certificazione di qualità – è in discussione in parlamento: nelle masserie intorno all’Ilva, sono state abbattute già milleduecento pecore. Senza dimenticare, aggiungono, quinta M dell’istituto Righi, che l’emergenza ha anche un altro nome: benzoapirene. Nel 2010 un decreto ferragostano ha abolito i limiti di 1 nanogrammo per metrocubo. Limiti che una cokeria, comunque, nei primi 1700 metri, non può rispettare neppure con le più ultime tecnologie: ed è anche meno, notano, la distanza tra le ciminiere e via Orsini, la strada che taglia austera i Tamburi, dritta e scarna come il miglio verde. I residenti, trincerati dietro le finestre chiuse, le serrande sprangate, hanno cominciato a dipingere le case di rosa. E comprare lapidi di granito rosso. E sono le volte che somiglia a Beirut, Taranto, spettrale e cariata dal vento di sale, le volte che la guerra, esausta, si fa paesaggio, e si stemperano e contaminano i confini tra civili e combattenti, la vita e la morte le volte che la guerra si protrae all’infinito, questo equilibrio precario e non è convivenza, solo con-morienza, questo precario respirare a filo di mare.

E somiglia a Oslo, Taranto, somiglia al Medio Oriente e il suo eterno processo di pace da quando nel 2002, l’anno della condanna di Emilio Riva per i parchi minerali, la prima, gli enti locali hanno ritirato la costituzione di parte civile e rinunciato al risarcimento danni, Comune di centrodestra e Provincia di centrosinistra: ed è cominciata invece la stagione degli atti di intesa. La stagione del passo a passo, accordo a accordo: perché quando i magistrati ordinarono il fermo delle batterie più logore della cokeria, l’Ilva si offrì di abbattere l’inquinamento abbattendo la produzione: e cioè licenziando 6mila operai. Ma ogni intesa non è che un terreno più avanzato di lotta, rassicura Nichi Vendola citando Pietro Nenni – anche se passo a passo, non somiglia che a Oslo, Taranto, accordo a accordo: e i suoi eterni negoziati ossidati in rito e liturgia. Con l’Ilva tenace in quell’atteggiamento padronale descritto da Martino Rosati, giudice della seconda condanna, poi spiaggiatasi per prescrizione. Ancora, getto pericoloso di cose. Oltre che danneggiamento: perché il nesso causale tra tumori e inquinamento è dimostrabile solo con l’amianto, in Italia, il nostro codice penale non sa tutelare i malati di leucemia: ma sa tutelare gli intonaci dei Tamburi. Era il 2007, e Emilio Riva e suo figlio Claudio furono anche interdetti dall’esercizio dell’attività industriale, e dichiarati incapaci di contrattare con la pubblica amministrazione. E’ con loro che la Regione Puglia ha deciso di decidere. Con due che al loro arrivo spedirono al confino settanta dipendenti scomodi, costretti per mesi a non fare niente in un capannone dismesso, senza neppure più i vetri alle finestre. Senza una sedia – i Riva, i due da cui è nato il reato di mobbing. Nell’ultimo accordo, in cambio dell’adeguamento degli impianti alle migliori tecnologie disponibili e la rimozione dell’amianto, viene eliminata ogni causa ancora pendente – e perché giorno a giorno, e ma non somiglia che a Oslo, Taranto: e i suoi eterni negoziati chiamati a disinnescare le leggi, convertire gli obblighi in concessioni. I diritti in favori. La Regione si è impegnata a pagare bonifiche e risarcimenti, quasi 60 milioni di euro solo per un primo risanamento dei Tamburi; ed è l’Italia a pagare ogni giorno 3 milioni 600mila euro, 150mila euro l’ora, per lo sforamento dei limiti di Kyoto. Mentre l’Ilva e gli altri stabilimenti, per anni, dimenticavano di pagare l’Ici, una voragine di 172 milioni di euro. Nell’ultimo rapporto, l’Ilva snocciola sicura miracolose sforbiciate delle emissioni senza mai indicare come sono state calcolate. Sicura e impunita.

Perché la superficie dell’Ilva è oltre due volte la superficie di Taranto, ma la città è ospite della fabbrica in un senso che non è solo fisico. L’industria è ovunque, anche in chiesa: ai Tamburi, sull’altare Gesù predica affrescato tra operai e ciminiere, è “il Gesù Divin Lavoratore”. E l’avessero chiesto, confessa l’allora sindaco Angelo Monfredi, “l’avremmo costruita anche al lungomare”. Perché tossiscono veleni ma anche salari, quelle ciminiere. Il 75 percento del Pil di Taranto e provincia. E forse non è un caso che i sindacati, qui, la sinistra, sostanzialmente non abbiano idee: non è solo la crisi di una fabbrica, questa, è la crisi di una cultura – una crisi che non solo li riguarda ma li comprende. Con la combattiva eccezione della Uil, sono fermi nel subordinare la salute al lavoro. Anche se poi l’impressione è che non sappiano neppure chi siano, oggi, gli operai dell’Ilva. Perché l’orgoglio siderurgico dei padri è manifesti ingialliti, sezioni di partito in disuso, i figli sono atomi – torno a casa la sera e lascio la tuta dietro la porta, mormora Mario controvoglia infilandosi veloce ai cancelli, “nessuna battaglia, nessuna speranza”. E perché non solo il tenore di vita, ormai, va a scapito della qualità della vita – ma perché sono lontani gli anni in cui Taranto aveva il reddito più alto del Mezzogiorno, e la fabbrica significava sicurezza, ferie contributi, modernità: oggi la fabbrica non garantisce più stabilità e ricchezza, ma precarietà e morte, contratti a termine malattie a vita, è la fabbrica in cui per non finire in Cina, bisogna diventare come la Cina: e il solo sviluppo è il callcenter TelePerformance, cinquecento euro al mese. L’Ilva non ha generato niente, intorno a sé. Neppure un centro di ricerca. Un’università. Il suo è acciaio anonimo, destinato a India, Brasile. I mercati di molto consumo e poca pretesa. Negli stabilimenti vicini, si usa acciaio di importazione.

Il procuratore Franco Sebastio indaga adesso per disastro ambientale doloso, reato istituito pochi mesi fa. Dopo che nel formaggio delle pecore di Carmelo Ligorio, all’ombra dell’Ilva, analisi commissionate da PeaceLink hanno rintracciato diossina in quantità tale che un bambino potrebbe mangiarne non più di due grammi al giorno. Perché non è vero, ripetono da anni gli ambientalisti, che non è possibile individuare chi ha inquinato cosa – individuare responsabilità: ogni diossina ha una sua impronta. E una prima perizia, in effetti, sostiene che l’impronta, in quel formaggio, è esattamente l’impronta dell’Ilva. Che al momento, tace. Il suo addetto stampa ha inviato un comunicato sulla salute dei lavoratori, il mattino dopo: annunciava l’introduzione del divieto di fumo all’interno dello stabilimento. Anche se ogni giorno un operaio della cokeria fuma l’equivalente di 7278 sigarette.

E anche se Carmelo Ligorio, intanto, è stato ucciso da un tumore.

Ma tutti ancora, nelle sedi istituzionali, negano l’emergenza. Certo: il segretario del Partito Democratico chiede che l’Ilva risarcisca la città. Ha proposto ai Riva di finanziare la stagione teatrale del Verdi, mentre nei dieci reparti che registravano meno infortuni si riceveva in premio un buono Coop da cento euro. L’arcivescovo, Benigno Papa, ha disertato la fiaccolata contro l’inquinamento, accusando gli organizzatori di agire per propri interessi: “ed è un inquinamento spirituale peggiore di quello ambientale”, ha dichiarato – mentre i Riva saldavano il conto del restauro della chiesa dei Tamburi. A cento passi, la ciminiera E-312, la più alta d’Europa, lampeggia nella sera come l’albero del Titanic; ora che tutto è sotto controllo, ora che la diossina rientra nei parametri europei, l’Ilva ne sputa quanto trenta inceneritori.

Tra i disegni arrivati a Nichi Vendola dalle scuole di Taranto, uno è una barca e quattro ciminiere. Il mare è blu scuro, poi il rosso, il nero. Il grigio della matita per il cielo. Pasquale, sotto, ha scritto: “visione di questo problema”.

Ho impiegato una vita, diceva Pablo Picasso, per imparare a dipingere come un bambino.

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