L’uscita per Taranto, in realtà, è segnalata due volte. Tamburi, avverte il cartello. Sotto, rosa, un altro: cimitero.
Nei
giorni di vento, l’aria si fa ruvida di polveri. Danzano argentee nella
sera, i bambini le chiamano brillantine e allungano le mani incantati,
li vedi rincorrerle come farfalle immaginarie. Sono le lucciole di
Taranto. Arrivano dall’Ilva, cento passi da qui. Negli anni, hanno
pennellato tutto di una sfumatura inconfondibile, tra la ruggine e il
mattone. Perché sembrano granito rosso, le lapidi del cimitero: era
marmo bianco. Ed era pietra, era colore del grano, e ora invece si
confonde con il tramonto alle sue spalle, l’acquedotto romano a cui i
Tamburi, quartiere operaio, pagina di Dickens, devono il nome. Sono i
più anziani, a ricordarlo; i ragazzi ti dicono tamburi non come il
tambureggiare di un torrente che scorre, ma i martelli, le fiamme le
lame, la presa rovente dell’Ilva. Lo chiamano familiarmente “il
minerale”. Asetticamente, parole come un’anestesia. Perché è denso,
invece, di parole dense di paura – è l’agente rosa, come in Vietnam.
Benzoapirene, diossina arsenico, piombo. Policlorobifenili. Respirare, a
Taranto, è un’eutanasia.
Con i suoi 13mila dipendenti, più 4mila
di indotto, una produzione fino a 30mila tonnellate al giorno, l’Ilva è
la prima acciaieria d’Europa. La ragione per raccontarla è anche solo
nei suoi numeri. Quasi milleduecento morti l’anno, cancro, e uno
stabilimento a cui nel 2006, quando è cominciata la battaglia, era
riconducibile sul totale italiano il 96 percento degli idrocarburi
policiclici aromatici, il 92 percento delle diossine, l’85 percento
dell’ossido di carbonio, l’85 percento del piombo. Il 68 percento del
mercurio, bandito anche dai termometri ma sversato nel mare di Taranto
per oltre due tonnellate l’anno. Un anno in cui ognuno dei 210mila
abitanti, qui, incamera 2,7 tonnellate tra monossido di carbonio,
benzene, ossido di zolfo. Ogni giorno ogni bambino, respirando, fuma
l’equivalente di 2,14 sigarette; e su un campetto da calcio, era il
2002, i netturbini hanno rastrellato via 654 tonnellate di polveri.
Per
il principale responsabile di tutto questo, Emilio Riva, che dall’Ilva
di Taranto fattura anche 10 miliardi di euro l’anno, e come risarcimento
alla città si è offerto di piantare un paio di aiuole, il nostro codice
penale non ha avuto che l’articolo 674: “getto pericoloso di cose”.
Punito con l’arresto fino a un mese, o l’ammenda, fino a lire 400mila.
Sembra
Nablus, in cui giri, incontri parli, e ognuno ha un fratello, un padre
in carcere in Israele. Ognuno, a Taranto, ha un fratello un padre, un
amico vittima dell’Ilva. Ma è una di quelle guerre di cui non scrive
nessuno – perché si muore tra vent’anni: e sono guerre in differita. Il
primo altoforno è entrato in funzione che era il 1964, la prima
manifestazione ecologista è del 1971. Le industrie altamente inquinanti
sono nove, e dal 1991 Taranto è “area a elevato rischio ambientale”. La
prima condanna in tribunale, per getto di polveri, è del 1982, quindici
giorni di reclusione per l’allora direttore dell’allora Italsider. Ma i
primi controlli sono del 2007, quando all’Agenzia regionale per
l’ambiente si insedia Giorgio Assennato, e riscontra nell’aria diossina
fino a 8,1 nanogrammi a metrocubo a fronte di uno 0,1 ottenibile con le
tecnologie più avanzate. Nessuno, all’epoca, aveva idea neppure di dove
fossero installate le telecamere per il monitoraggio delle emissioni.
Quando infine il funzionario, nel filmato di una vecchia inchiesta,
trova l’edificio giusto, ai Tamburi, non trova la chiave: e quando
infine trova la chiave, scopre che sono telecamere che non sono mai
state accese.
Perché quella dell’Ilva non è semplicemente una
storia di diossine e tumori. Quasi nove chili, tre volte Seveso. Ma i
numeri, in realtà, sono sempre parziali, contraddittori, dispersi; più
spesso, inesistenti. O comunque inaccessibili. Nessuno sa con precisione
quanti siano, a oggi, i morti di cancro. Né le malattie professionali e
gli incidenti sul lavoro. L’unica certezza è che dal 1970 al 2000
l’incidenza delle neoplasie polmonari è raddoppiata, e i tumori alla
pleura a Taranto sono quattro volte che nel resto della Puglia. Si
comincia a parlare di danno genotossico – la verità è che i numeri
bisognerà calcolarli sulle prossime generazioni. Patrizio Mazza,
primario di oncologia, stima un aumento dei tumori intorno al 30
percento negli ultimi dieci anni, “e colpiscono persone sempre più
giovani”. Ha diagnosticato un adenocarcinoma del rinofaringe, il cancro
del fumatore incallito, a un ragazzino di undici anni. Ma per ora, nelle
sedi istituzionali, tutti negano l’emergenza. Anche se nessuno offre
statistiche: e dopo vari casi di documenti rimasti in quarantena nei
cassetti dei ministeri, la sensazione è che in tanti continuino a sapere
e non dire. L’Ilva monitora la cokeria, trecento operai: nel 2001 si
sono ammalati in quindici – è falciato dal cancro uno ogni venti, lì
dentro: e sono tutti ragazzi sui trent’anni. Le riunioni tra enti
locali, sindacati e proprietà, alla ricerca di una indefinita
“ecocompatibilità” tra la città e la fabbrica, sono rigorosamente a
porte chiuse. Il giorno che ha chiesto di ascoltare, Biagio De Marzo,
ingegnere dell’Ilva ora sul fronte opposto, è stato cacciato –
“terrorista”: bollato così.
La nebbia che sigilla Taranto non è
solo drammaticamente reale, ma anche pericolosamente metaforica. Anche
se la diossina è così feroce che non si misura in nanogrammi, e cioè
miliardesimi di grammo, ma picogrammi, millesimi di nanogrammi. Nel
latte materno, la media in Europa è 5 picogrammi per grammo: a Taranto
20 picogrammi, con punte di 40. Il latte in bottiglia, in Italia, può
contenere al massimo 6 picogrammi di diossina. Tutti negano l’emergenza.
Ma intanto, le madri di Taranto dovrebbero finire sotto sequestro.
Somiglia
al Kosovo, Taranto, alle nuove guerre dei nostri tempi, queste guerre
umanitarie in cui si viene bombardati per essere difesi, e si coniano e
perseguono strani ossimori, le guerre giuste come la ecocompatibilità, e
tutto diventa un’alternativa, un gioco a somma zero, tutto un destino
da tragedia greca in cui nessuno ha davvero torto, nessuno davvero
ragione – perché è inevitabile, ti dicono, “produrre acciaio non è come
produrre cioccolato”, spiegano all’Ilva, è necessario un compromesso tra
la salute e il lavoro, e come altrove, ti dicono, tra la libertà e la
sicurezza, la democrazia e la stabilità. Poi però scopri che il disastro
ambientale, in larga parte, non è che l’effetto di mancate precauzioni,
mancate manutenzioni. Mancate innovazioni. Scopri che un giorno, era la
fine degli anni Settanta, comparve un uomo che sembrava un astronauta,
dentro una specie di scafandro. Era un tecnico, racconta Francesco, ed
era stato chiamato per l’apirolio, una miscela per il raffreddamento dei
trasformatori elettrici. Erano oltre mille; e periodicamente bisognava
sostituire l’apirolio. Che è cancerogeno; ma quando nel resto del mondo
già si sapeva, racconta, a Taranto veniva sversato senza guanti nei
tombini. Perché è una storia di emissioni, questa, ma soprattutto
omissioni. Di polveri spazzate via con la scopa. Il rosa dei Tamburi
arriva dai parchi minerali: sono colline alte dieci metri, in realtà,
lunghe centinaia: è sabbia di ferro: e persino in Cina si copre, per
evitare si disperda in aria. L’Ilva si appella alla crisi. Ma nel
siderurgico a essere cambiati sono solo i prezzi delle materie prime, e
quindi i margini di profitto: l’Ilva non teme di fallire, ma di
guadagnare meno. Continua a essere in utile. L’assegno da cento milioni
che giurava di non avere per inserire dei filtri nelle ciminiere, e
salvare Taranto, è stato prontamente staccato per salvare Alitalia.
Nel
suo settore, rimane ai vertici europei e mondiali. Ma l’Ilva è salda
anche ai vertici di classifiche meno patinate, come quella italiana per
gli incidenti sul lavoro – uno ogni quindici operai. Sono quelle che
chiamano morti bianche: come le morti in culla. Morti improvvise, senza
ragione e dunque senza responsabilità. Un piede in fallo, e giù da
un’impalcatura. Distrazione, fatalità. Destino. Produrre acciaio non è
come produrre cioccolato. Giovanni Satta è morto il 27 ottobre 2005.
Perché logica chiede che una demolizione sia eseguita dall’alto verso il
basso: ma segando i pilastri alla base, si fa prima. E si vincono gli
appalti. Anche se poi ti precipita in testa un solaio di cemento. Perché
il primo responsabile, in realtà, è il tempo. Si lavorava con ritmi
sostenibili, e quindi con più attenzione, racconta Ernesto. E
soprattutto si lavorava in squadra. Oggi, invece, non solo la formazione
è minima: è teorica. Mentre in fabbrica, racconta, è fondamentale il
sapere operaio. L’esperienza: osservare, imparare dagli altri. Cosa
difficile con un contratto di tre mesi, sei mesi. O al nero, come è
prassi nella giungla dell’indotto. Tre giorni. Sei giorni. Con la
privatizzazione, i primi anni ogni anno all’Ilva cambiava la metà dei
dipendenti. Distrazione, destino. Precarietà. Eppure, come sempre, è
inutile cercare cifre certe. Ufficiali. Inutile bussare all’Inail.
Secondo il suo direttore, Giuseppe Gigante, il problema non è il
rispetto delle norme di sicurezza da parte dell’azienda, ma la condotta
dei lavoratori. Quello critico, non a caso, è il lunedì: perché il
sabato e la domenica, sostiene, tirano tardi. E comunque, sono in pochi a
denunciare. La strategia dell’Ilva è assumere i figli, i fratelli – a
condizione, ovviamente, di tacere. Ti dicono questo è il prezzo dello
sviluppo, come questo, altrove, è il prezzo della pace – poi scopri che
questo è il prezzo del profitto e del dominio.
E ti dicono,
soprattutto, che sono questioni complesse, ti dicono che bisogna
affidarsi agli esperti. Poi però scopri che tutto è cominciato
dall’ostinazione di un professore di lettere diventato studioso di
chimica, si chiama Sandro Marescotti e ricorda Nichi Vendola, quando era
ai Tamburi in campagna elettorale: non radicale, precisava di sé, ma
radicato, “estremista solo nell’amore per la mia terra”. Per avere
trovato diossina nelle cozze è stato denunciato per “procurato allarme”,
è la seconda volta, dopo il procurato allarme sul mercurio nel mare.
Quando si rivelò un anticipato allarme, e finì archiviato. Agli inizi,
chiedeva l’elenco delle emissioni nocive, e si sentiva opporre il
segreto industriale. Senza le pressioni della sua PeaceLink, non si
sarebbe mai avuta la legge regionale sulla diossina, oggi icona della
sinistra di governo – e che in Friuli Venezia Giulia è un semplice
decreto firmato da un dirigente dell’assessorato all’Ambiente. Approvata
nel 2008, ha recepito i limiti europei di 0,4 nanogrammi per metrocubo
indicati dal protocollo di Aahrus del 2004, e ignorati dal decreto
legislativo 152 del 2006 che disciplina le emissioni di diossina in
Italia. Tocca a Giorgio Assennato vigilare, e comunicare alla Regione
eventuali sforamenti: se l’Ilva non rientra nei limiti entro 60 giorni,
gli impianti devono fermarsi. Ma lo scontro è ancora in corso. Gli
ambientalisti vogliono un monitoraggio in continuo, previsto dalla legge
e poi sostituito, attraverso una seconda legge di interpretazione, da
singole rilevazioni, minimo tre all’anno. Temono che così l’Ilva abbia
modo di prepararsi. Addomesticare i valori. E non solo l’Ilva, forse: a
dicembre si è avuta una quarta verifica a venti giorni dalla terza, e la
media, che era 0,51, è provvidenzialmente tornata nei limiti. Temono
tra la città e la fabbrica non sia convivenza, quella a cui si mira, ma
connivenza.
E contestano, tra l’altro, che l’attenzione sia ora
tutta sulle emissioni in atmosfera. Perché ti dicono che bisogna
affidarsi agli esperti: poi però scopri che la diossina viene assorbita
per il 98 percento attraverso l’alimentazione, e che ha senso misurarla
non tanto nell’aria, allora, ma nella carne, nel latte nel pesce –
scopri che un gruppo di liceali, qui, ha avuto un’idea migliore. Hanno
proposto un marchio dioxin free, una specie di certificazione di qualità
– è in discussione in parlamento: nelle masserie intorno all’Ilva, sono
state abbattute già milleduecento pecore. Senza dimenticare,
aggiungono, quinta M dell’istituto Righi, che l’emergenza ha anche un
altro nome: benzoapirene. Nel 2010 un decreto ferragostano ha abolito i
limiti di 1 nanogrammo per metrocubo. Limiti che una cokeria, comunque,
nei primi 1700 metri, non può rispettare neppure con le più ultime
tecnologie: ed è anche meno, notano, la distanza tra le ciminiere e via
Orsini, la strada che taglia austera i Tamburi, dritta e scarna come il
miglio verde. I residenti, trincerati dietro le finestre chiuse, le
serrande sprangate, hanno cominciato a dipingere le case di rosa. E
comprare lapidi di granito rosso. E sono le volte che somiglia a Beirut,
Taranto, spettrale e cariata dal vento di sale, le volte che la guerra,
esausta, si fa paesaggio, e si stemperano e contaminano i confini tra
civili e combattenti, la vita e la morte le volte che la guerra si
protrae all’infinito, questo equilibrio precario e non è convivenza,
solo con-morienza, questo precario respirare a filo di mare.
E
somiglia a Oslo, Taranto, somiglia al Medio Oriente e il suo eterno
processo di pace da quando nel 2002, l’anno della condanna di Emilio
Riva per i parchi minerali, la prima, gli enti locali hanno ritirato la
costituzione di parte civile e rinunciato al risarcimento danni, Comune
di centrodestra e Provincia di centrosinistra: ed è cominciata invece la
stagione degli atti di intesa. La stagione del passo a passo, accordo a
accordo: perché quando i magistrati ordinarono il fermo delle batterie
più logore della cokeria, l’Ilva si offrì di abbattere l’inquinamento
abbattendo la produzione: e cioè licenziando 6mila operai. Ma ogni
intesa non è che un terreno più avanzato di lotta, rassicura Nichi
Vendola citando Pietro Nenni – anche se passo a passo, non somiglia che a
Oslo, Taranto, accordo a accordo: e i suoi eterni negoziati ossidati in
rito e liturgia. Con l’Ilva tenace in quell’atteggiamento padronale
descritto da Martino Rosati, giudice della seconda condanna, poi
spiaggiatasi per prescrizione. Ancora, getto pericoloso di cose. Oltre
che danneggiamento: perché il nesso causale tra tumori e inquinamento è
dimostrabile solo con l’amianto, in Italia, il nostro codice penale non
sa tutelare i malati di leucemia: ma sa tutelare gli intonaci dei
Tamburi. Era il 2007, e Emilio Riva e suo figlio Claudio furono anche
interdetti dall’esercizio dell’attività industriale, e dichiarati
incapaci di contrattare con la pubblica amministrazione. E’ con loro che
la Regione Puglia ha deciso di decidere. Con due che al loro arrivo
spedirono al confino settanta dipendenti scomodi, costretti per mesi a
non fare niente in un capannone dismesso, senza neppure più i vetri alle
finestre. Senza una sedia – i Riva, i due da cui è nato il reato di
mobbing. Nell’ultimo accordo, in cambio dell’adeguamento degli impianti
alle migliori tecnologie disponibili e la rimozione dell’amianto, viene
eliminata ogni causa ancora pendente – e perché giorno a giorno, e ma
non somiglia che a Oslo, Taranto: e i suoi eterni negoziati chiamati a
disinnescare le leggi, convertire gli obblighi in concessioni. I diritti
in favori. La Regione si è impegnata a pagare bonifiche e risarcimenti,
quasi 60 milioni di euro solo per un primo risanamento dei Tamburi; ed è
l’Italia a pagare ogni giorno 3 milioni 600mila euro, 150mila euro
l’ora, per lo sforamento dei limiti di Kyoto. Mentre l’Ilva e gli altri
stabilimenti, per anni, dimenticavano di pagare l’Ici, una voragine di
172 milioni di euro. Nell’ultimo rapporto, l’Ilva snocciola sicura
miracolose sforbiciate delle emissioni senza mai indicare come sono
state calcolate. Sicura e impunita.
Perché la superficie dell’Ilva
è oltre due volte la superficie di Taranto, ma la città è ospite della
fabbrica in un senso che non è solo fisico. L’industria è ovunque, anche
in chiesa: ai Tamburi, sull’altare Gesù predica affrescato tra operai e
ciminiere, è “il Gesù Divin Lavoratore”. E l’avessero chiesto, confessa
l’allora sindaco Angelo Monfredi, “l’avremmo costruita anche al
lungomare”. Perché tossiscono veleni ma anche salari, quelle ciminiere.
Il 75 percento del Pil di Taranto e provincia. E forse non è un caso che
i sindacati, qui, la sinistra, sostanzialmente non abbiano idee: non è
solo la crisi di una fabbrica, questa, è la crisi di una cultura – una
crisi che non solo li riguarda ma li comprende. Con la combattiva
eccezione della Uil, sono fermi nel subordinare la salute al lavoro.
Anche se poi l’impressione è che non sappiano neppure chi siano, oggi,
gli operai dell’Ilva. Perché l’orgoglio siderurgico dei padri è
manifesti ingialliti, sezioni di partito in disuso, i figli sono atomi –
torno a casa la sera e lascio la tuta dietro la porta, mormora Mario
controvoglia infilandosi veloce ai cancelli, “nessuna battaglia, nessuna
speranza”. E perché non solo il tenore di vita, ormai, va a scapito
della qualità della vita – ma perché sono lontani gli anni in cui
Taranto aveva il reddito più alto del Mezzogiorno, e la fabbrica
significava sicurezza, ferie contributi, modernità: oggi la fabbrica non
garantisce più stabilità e ricchezza, ma precarietà e morte, contratti a
termine malattie a vita, è la fabbrica in cui per non finire in Cina,
bisogna diventare come la Cina: e il solo sviluppo è il callcenter
TelePerformance, cinquecento euro al mese. L’Ilva non ha generato
niente, intorno a sé. Neppure un centro di ricerca. Un’università. Il
suo è acciaio anonimo, destinato a India, Brasile. I mercati di molto
consumo e poca pretesa. Negli stabilimenti vicini, si usa acciaio di
importazione.
Il procuratore Franco Sebastio indaga adesso per
disastro ambientale doloso, reato istituito pochi mesi fa. Dopo che nel
formaggio delle pecore di Carmelo Ligorio, all’ombra dell’Ilva, analisi
commissionate da PeaceLink hanno rintracciato diossina in quantità tale
che un bambino potrebbe mangiarne non più di due grammi al giorno.
Perché non è vero, ripetono da anni gli ambientalisti, che non è
possibile individuare chi ha inquinato cosa – individuare
responsabilità: ogni diossina ha una sua impronta. E una prima perizia,
in effetti, sostiene che l’impronta, in quel formaggio, è esattamente
l’impronta dell’Ilva. Che al momento, tace. Il suo addetto stampa ha
inviato un comunicato sulla salute dei lavoratori, il mattino dopo:
annunciava l’introduzione del divieto di fumo all’interno dello
stabilimento. Anche se ogni giorno un operaio della cokeria fuma
l’equivalente di 7278 sigarette.
E anche se Carmelo Ligorio, intanto, è stato ucciso da un tumore.
Ma
tutti ancora, nelle sedi istituzionali, negano l’emergenza. Certo: il
segretario del Partito Democratico chiede che l’Ilva risarcisca la
città. Ha proposto ai Riva di finanziare la stagione teatrale del Verdi,
mentre nei dieci reparti che registravano meno infortuni si riceveva in
premio un buono Coop da cento euro. L’arcivescovo, Benigno Papa, ha
disertato la fiaccolata contro l’inquinamento, accusando gli
organizzatori di agire per propri interessi: “ed è un inquinamento
spirituale peggiore di quello ambientale”, ha dichiarato – mentre i Riva
saldavano il conto del restauro della chiesa dei Tamburi. A cento
passi, la ciminiera E-312, la più alta d’Europa, lampeggia nella sera
come l’albero del Titanic; ora che tutto è sotto controllo, ora che la
diossina rientra nei parametri europei, l’Ilva ne sputa quanto trenta
inceneritori.
Tra i disegni arrivati a Nichi Vendola dalle scuole
di Taranto, uno è una barca e quattro ciminiere. Il mare è blu scuro,
poi il rosso, il nero. Il grigio della matita per il cielo. Pasquale,
sotto, ha scritto: “visione di questo problema”.
Ho impiegato una vita, diceva Pablo Picasso, per imparare a dipingere come un bambino.
Fonte.
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