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03/03/2017

Palestina: il dilemma di uno o due Stati

Dopo l’incontro tra il presidente USA Trump e il primo ministro israeliano Netanyahu, avvenuto il 15 febbraio scorso, sono finite le mediazioni, le mezze soluzioni e rimane un fatto concreto: la Palestina è la Patria del popolo arabo palestinese e l’occupazione sionista, coloniale, razzista, è un regime di apartheid. Il popolo palestinese è chiamato ancora una volta a continuare la sua lotta per abbattere il regime sionista di apartheid, per uno Stato laico e democratico in tutta la Palestina, uno Stato di diritto, senza nessuna discriminazione razziale o religiosa.

Trump è stato molto chiaro, a lui non importa che vi siano uno o due stati, l’importante è “la pace” e che il suo amico Netanyahu sia contento. Quindi, carta bianca, senza riserva, per la colonizzazione sionista della Palestina. Siamo ad un cambiamento strategico della politica statunitense sul conflitto arabo - israeliano - palestinese, una politica che per anni si è basata sulla soluzione di due Stati. La nuova Amministrazione statunitense ha sbattuto la porta in faccia al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che dal 1947 aveva votato per la creazione di due Stati. Quante risoluzioni di quest’organismo cadranno nel dimenticatoio! Perché se una risoluzione non può essere attuata non vale nemmeno l’inchiostro e la carta spese per scriverla. Con la nuova linea Trump si cancellano sia il diritto sia le relazioni internazionali. E dobbiamo aspettare per vedere se questo nuovo approccio alla politica estera USA sarà esteso ad altri punti nevralgici delle contraddizioni internazionali; se con questa linea politica verranno affrontati altri conflitti, non solo armati, ma economici e politici sparsi su questo pianeta.

Dunque, niente Stato palestinese, come ha sempre dichiarato il governo di estrema destra; ma qual è, allora, l’alternativa per una soluzione a questo secolare conflitto? Secondo la destra israeliana, per i palestinesi c’è già uno stato a Gaza; e si possono allargare i confini di questo Stato aggiungendo una parte (il doppio della superficie di Gaza) del Sinai egiziano, e Israele garantirà porto, aeroporto e zone industriali, mantenendo il controllo della difesa. Inoltre, Israele annetterà a sé le ampie colonie della Cisgiordania, insieme a quelle di Gerusalemme, e le zone rimanenti, piccoli Cantoni, potranno scegliere di vivere o nello Stato di Gaza (arrivando ad esso tramite un tunnel) o in Giordania.

La seconda alternativa è lo Stato unico, che consisterebbe nell’annessione definitiva dei territori occupati a Israele, con gli effetti conseguenti: cittadinanza, diritti civili, elezioni (ogni testa un voto), quindi la fine della richiesta dello Stato puramente ebraico, come chiede l’estrema destra religiosa che governa in Israele, e la fine anche del progetto sionista.

Il giornalista israeliano Uri Safir scrive su Ma’ariv del 27/2/2017: “Per il modo in cui l’attuale governo sta andando, ci fa percepire questa visione: ci sembra che stiamo vivendo tra il mare e il fiume (ossia, sull’intero territorio di Israele “la Palestina storica”); in uno Stato che non è ebreo né democratico, ma bi-nazionale, oggi vivono 6,6 milioni di ebrei e 6,2 milioni di arabi palestinesi. Fra tre anni, nel 2020, gli ebrei saranno una minoranza nel loro stesso Paese: secondo le più credibili statistiche ci saranno circa 7,5 milioni di arabi (principalmente musulmani) e 7 milioni di ebrei.”
Già! La cosiddetta bomba demografica, che trasforma in incubi i sogni dei governanti israeliani. Uri Safir va oltre, e teme l’effetto sull’economia a causa dell’annessione . “Per non parlare del terribile prezzo morale, che ci rende isolati da tutto il mondo come un paese coloniale”. Safir non lo vuole riconoscere che questa si chiama apartheid.

Non mancano le polemiche né le critiche allo Stato unico, sia da parte israeliana sia palestinese, poiché di questa possibile soluzione si discute ancora a livello di intellettuali. Ma in una società come quella israeliana, che va sempre più verso la destra estremista, razzista e coloniale di insediamento, che nega ed esclude l’altro, può essere concepibile, per i palestinesi, vivere nello stesso Stato israeliano? E questo darà loro gli stessi diritti? I profughi palestinesi potranno tornare? Che fine farà il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese? I palestinesi accetteranno che la loro lotta si focalizza solo sui diritti civili, e non sia più una lotta di liberazione nazionale? Che forma di governo avrà questo Stato? Due governi, due parlamenti, un governo centrale? E quale percentuale avranno i palestinesi nelle istituzioni? Sono domande che fino ora non hanno trovate risposte convincenti.

Per anni, si è parlato di due Stati. E tanti Stati, all’Onu, hanno riconosciuto lo Stato palestinese entro i confini del 1967, come Stato osservatore. Vi è stato il veto degli Usa al Consiglio di Sicurezza, che ha impedito il pieno riconoscimento: che succederà, ora, con l’amministrazione Trump, se la leadership palestinese presentasse di nuovo la richiesta per il riconoscimento pieno dello Stato di Palestina? La stragrande maggioranza degli Stati difende la soluzione dei due Stati, ma per l’ipocrisia politica che segna molte delle relazioni internazionali, nessuno Stato ha mai esercitato vere pressioni sui governi israeliani, nell’obiettivo che Israele accettasse tale soluzione, che del resto non ha mai convinto nemmeno tutti i palestinesi. Ora sono in molti governi a parlare in sostegno ai due Stati, ma senza crederci veramente e chissà cosa accadrà in relazione alla politica di Trump e Netanyahu.

Che fare? La leadership palestinese ritiene sia importante mantenere l’opzione di due Stati come soluzione accettata dalla comunità internazionale, in quanto si basa sulle risoluzioni dell’Onu. Ma dall’altra parte non esclude altre soluzioni, ad esempio sciogliere l’Anp e mettere Israele e la comunità internazionale davanti alle loro responsabilità, e lasciare ai palestinesi sotto occupazione la libertà di scegliere i mezzi di lotta contro l’occupazione.

Infine vi è anche la soluzione dello Stato democratico*, messa nel cassetto dopo il programma politico dei 10 punti approvato dal Consiglio nazionale palestinese (il parlamento dell’Olp) nel 1974. E che tanti palestinesi stanno chiedendo. Un obiettivo strategico unificante per tutti i palestinesi sia sotto occupazione sia nella diaspora.

La lotta palestinese sta attraversando la fase più difficile e delicata della propria storia; il mondo arabo è diviso e insanguinato da guerre interne e di logoramento che lo allontanano dalla sua causa centrale che è la Palestina.

Rimane solo una certezza, che il popolo palestinese non perderà mai la bussola della lotta di liberazione, che rimarrà determinato e convinto del proprio diritto all’autodeterminazione e alla libertà, contando sul sostegno di tanti uomini e donne del mondo, perché la sua lotta contro l’imperialismo e il sionismo è la stessa lotta di tutti i popoli amanti della pace e della giustizia.

* si consiglia la lettura della tesi di laurea di Enrico Bartolomei,"L'idea di stato democratico nel pensiero politico del movimento di resistenza palestinese". PhD thesis, 2013, Università degli studi di Macerata

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