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07/02/2018

Il racket dell’informazione

La scena recitata da Bianca Berlinguer nell’ultima puntata di Carta Bianca è la cifra reale dello stato dell’informazione mainstream. La studiata incertezza davanti al nome della lista (“Potere… al Po… polo”, per far capire “ma che cazzo sto leggendo?”), il malcelato disprezzo per la persona che stava annunciando (presentata una prima volta come “segretaria”, poi come “portavoce”, pronunciando poi solo il nome senza il cognome, fino a voltarle le spalle prima ancora dell’ingresso in studio), il pervicace rifiuto nel darle parola (45 secondi in tutto, spesi in battutine a mezzi con Vittorio Sgarbi – un signore, al confronto della conduttrice – di cui solo 10 per “il vostro programma in due parole”, con risposta interrotta a metà col solito “ma dove si trovano i soldi?”)...

Aggiungiamoci il dato “strutturale”: l’unica chiamata in una trasmissione serale Rai è arrivata il giorno di apertura del festival di Sanremo, e Viola è stata mandata in onda intorno alle 23. Difficile far di peggio...

Di fatto, una prassi che appare come un distillato di odio sociale molto “professionale” per tutti quelli che in quel momento Viola Carofalo stava rappresentando; odio stimolato probabilmente dai più recenti sondaggi, secondo cui Potere al Popolo sta facendo scorreria nella presunta “riserva di caccia” di Liberi e Uguali.

Avevamo già denunciato il cartello di fatto tra tutti i media principali, omogenei nel negare a Potere al Popolo qualsiasi visibilità nonostante si sia già entrati nel periodo coperto dalla par condicio. Per i cultori della legalità, insomma, i media stanno commettendo scientemente un reato. Per il quale il potere economico e politico non li punirà mai, anzi...

Ma ora ci sembra indispensabile inquadrare meglio la situazione, evitando quel vittimismo imbelle in cui tanta “sinistra” sedicente radicale preferisce rifugiarsi per non guardare in faccia la realtà. La censura praticata nei confronti di questa lista è infatti un atto di guerra politico-sociale, non una “scortesia” da servi praticanti.

Vediamo perché. Fin dall’apparizione di logo, appello e programma politico di Potere al Popolo è stato chiaro che era nata una proposta di rappresentanza elettorale completamente diversa dal solito. Al suo interno c’è infatti la “sinistra conosciuta” (Rifondazione, Pci, ecc.), ma la logica politica che anima questo insieme è completamente rovesciata rispetto al passato. Non aspira infatti ad essere una lista tra le altre sugli scaffali del mercato elettorale, ma la rappresentanza reale di un blocco sociale articolato, vastissimo per dimensioni ma politicamente ammutolito.

Qualsiasi osservatore dotato di fiuto ed esperienza ha perciò “nasato” che stava bollendo in pentola qualcosa di estremamente pericoloso per l’establishment. Qualcosa in grado – solo potenzialmente, per ora – di restituire protagonismo politico ad una parte maggioritaria della società fin qui completamente anestetizzata tra offerte clientelari (Pd-Berlusconi-frattaglie in coalizione), paure gonfiate (Lega, Meloni, fascisti vari cui viene concesso uno spazio mediatico abnorme) e malcontento delegato (Cinque Stelle).

Un pericolo tanto più grave perché apparso proprio mentre i grillini vengono riportati all’ovile tramite Ligi Di Maio e all’elettorato progressista schiantato da Renzi veniva offerto un placebo chiamato LeU. Ossia proprio mentre l’“offerta politica” era tutta tornata nelle mani dell’establishment.

Non possono attaccarci come “populisti”, né come pericolosi “estremisti”; siamo agli antipodi dei nemici di comodo inventati per spaventare e governare (razzisti, nazionalisti, ecc). Non hanno categorie adatte pronte allo scopo, sono in attesa che i loro maghetti della comunicazione inquadrino il nuovo venuto.

Nel frattempo, dunque, meglio non parlarne.

Inevitabile, perciò, che gli attivisti di Potere al Popolo si presentino domani davanti a tutte le sedi Rai per pretendere nientemeno quel che “la legge”, sulla carta, impone. Inevitabile anche che lo facciano con un tono molto determinato, dando a quei “fantasmi” che verranno portati in strada la fisicità inquietante di un avversario politico già inquadrato come “nemico”, non certo la garrula evanescenza delle maschere carnevalesche.

In un osceno servizio de La7, giorni fa, i comitati di lotta per la casa venivano descritti a “racket delle case popolari”, confondendo a bella posta lotta sociale (organizzata, altrimenti non è) e gestione privatistico-delinquenziale di patrimonio pubblico. Una definizione che – involontariamente, certo – si attaglia perfettamente alla gestione dell’informazione in Italia.

Esagerati? Non ci sembra affatto. Una notizia di ieri ci aiuta a spiegarci: nel corso di una inchiesta sono stati arrestati “magistrati, avvocati, professionisti, consulenti, docenti universitari, con i quali – grazie ad una sapiente quanto spregiudicata opera di dossieraggio e depistaggi – [l’avvocato Piero Amara] sarebbe riuscito negli ultimi anni a condizionare l’esito di procedimenti amministrativi per un valore di svariate centinaia di milioni di euro, a vantaggio dei propri clienti a anche delle aziende in cui aveva interessi personali, e a frenare o intorbidare procedimenti penali in procure di mezza Italia, da Siracusa a Roma a Milano”.

Una normale storia di business all’italiana, in cui “liberi imprenditori”, servitori dello Stato, controllori e controllati, si servivano della “sfera pubblica” per garantirsi una torta privatissima.

I media italiani sono immersi nella stessa melma. Editori “impuri” che spendono soldi pur di avere “manganelli mediatici” con cui combattere la concorrenza (e gli oppositori sociali, quando esistono); direttori assunti in base al tasso di servilismo e alla capacità di governare redazioni in genere ben disposte a spianarsi a tappetino; giornalisti sempre meno professionali – la precarietà contrattuale sta facendo strage anche in questo settore – e dunque ancor meno propensi all’“indipendenza di pensiero” o alla normale deontologia professionale.

Un esempio? Quei poveri redattori delle agenzie stampa spediti a seguire un qualsiasi “evento”, spesso uno dietro l’altro in zone diverse della città. Come si salvano? Semplice: si mettono d’accordo tra teorici “concorrenti” (“tu segui questo, io quell’altro”) e si scambiano le informazioni raccolte. Risultato? Tutti i lanci di agenzia sono praticamente identici, parola più, parola meno. E i lanci delle agenzie sono il “precotto” su cui poi lavorano i normali redattori...

Un racket, confermiamo. Organizzato da boss che hanno il potere dei soldi e gestito da “plenipotenziari” che gestiscono i “gruppi d’azione”, aiutati da una deregulation imposta per via legislativa dai terminali parlamentari addetto allo scopo.

Contro questo mostro ci stiamo battendo. Ma dovremmo quasi ringraziarli. Ci ricordano infatti ogni minuto che la politica è una guerra combattuta con altri mezzi. Lo scopo non è “esserci”, ma vincere. E di solito il vittimismo non si attaglia ai combattenti.

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