Apparentemente, la sceneggiata in corso sulla formazione o meno di un governo sulla base del voto del 4 marzo sembra un teatro dell’assurdo. Il tripolarismo uscito dalle urne è assai meno fatto di “incompatibilità” di quanto non venga messo in mostra.
Prima del voto, infatti, centrodestra, grillini e PD si dichiaravano tutti indisponibili a governare con uno degli altri due soggetti in campo. I programmi, persino quelli, risultavano visibilmente diversi (abolire la Fornero o farsene un vanto, il reddito di cittadinanza oppure il lavoro obbligatorio sottopagato, abolire il Jobs Act o farne la pietra miliare del nuovo mercato del lavoro), per non dire delle posizioni sulle questioni internazionali (fuori/dentro l’Unione Europea oppure non saprei, difesa dell’euro o ritorno alla lira, per sempre con la Nato oppure vediamo, parliamo con la Russia).
Due mesi di “trattative” hanno cancellato dal discorso pubblico ogni differenza sostanziale. Sono tutti “europeisti” (con qualche imbizzarimento leghista), pur se con percentuali di entusiasmo differenti. La moneta unica non si tocca per nessuno, le critiche semmai riguardano il passato e il tasso di cambio originario. La Nato e l’America restano l’unico faro, anche se pezzi importanti di Confindustria vorrebbe eliminare almeno in parte le sanzioni a Putin e riprendere ad esportare in Russia. La Fornero ce la teniamo così com’è, al massimo qualche aggiustamento; il Jobs Act anche, senza cambiamenti; il reddito di cittadinanza è diventato un piccolo allargamento della “mancetta” elargita dal governo Gentiloni ai poverissimi (“reddito di inclusione”).
Eppure il governo non si fa. E anche il voto anticipato – che diventerebbe inevitabile – non può più comunque avvenire entro l’estate. Al massimo in autunno, probabilmente anche dopo.
I due “perdenti” principali – Berlusconi e Renzi – hanno ancora forza sufficiente ad impedire che centrodestra e Pd, rispettivamente, trovino un “accordo contrattuale” con il neodemocristiano Di Maio. Scelta che sembra assurda, sul piano politico-personale, perché mette in sofferenza forte entrambi gli schieramenti.
E tanto più assurda appare se si pensa che quei due sono anche i referenti principali della “fedeltà europea” possibile in questo paese, reduci da accordi ferrei con Angela Merkel e Bruxelles in nome dello “sbarriamo la strada al populismo”.
Perché, insomma, l’Unione Europea dovrebbe vedere con favore questa melina che rende l’Italia un paese ininfluente proprio nel momento in cui c’è da discutere di “riforma della Ue verso una comunità a due velocità”?
Forse proprio per questo. Una trattativa lasciata al solo asse franco-tedesco sarebbe certamente molto più rapida, facilitando scelte drastiche fortemente impopolari da cui, comunque, non si potrebbe tornare indietro, stante la prassi di tutti i trattati istitutivi dell’Unione (che non possiamo neppure sottoporre a referendum...). Ma ancora di più, forse, per eliminare quella “strana cosa” che in dieci anni è cresciuta fino a diventare la prima forza politica del paese.
I Cinque Stelle in versione Di Maio sono una sbiadita copia del “movimento dei vaffa”, senza averci guadagnato nulla in capacità manovriera. L’illusione che “ora devono venire tutti a parlare con noi” è evaporata in soli due mesi, passati per l’appunto a parlare con tutti senza cavare un ragno dal buco. Cosa resta? L’assoluta certezza che Di Maio andrebbe al governo anche col suo nemico personale, cancellando valori sbandierati come “costitutivi” e punti di programma scritti e riscritti dopo il voto.
Se così è – e sembra proprio che sia così, vedendo i risultati di Molise e Friuli – per i grillini il massimo del successo elettorale è ormai dietro le spalle. Nulla è più pericoloso che passare dalla purezza integrale al trattativismo indifferente. Neanche l’aver schivato all’ultimo secondo una photo opportunity con il Caimano, in scia a Salvini, può aiutare a mantenere un’immagine di integrità in via di dissoluzione.
Distruggere i Cinque Stelle è importante non perché siano mai stati effettivamente pericolosi per l’establishment italiano ed europeo (hanno dimostrato in pochi giorni di non esserlo mai stati, retorica incendiaria a parte), quanto per cancellare l’idea che si possa costituire un movimento politico extra-establishment in grado di dare risposte al malessere sociale e politico diffuso.
Abbiamo criticato i grillini per anni, proprio perché vedevamo il vuoto programmatico/strategico dietro una retorica “acchiappesca”, ma è un fatto che siano risultati a lungo credibili – agli occhi di milioni di persone – come unica opposizione che non scendeva a compromessi con l’establishment. Neanche in nome del “non facciamo rivincere Berlusconi”, che ha invece ucciso definitivamente quella che si definiva “sinistra radicale”.
Va bene, dirà qualcuno, faranno a pezzi i grillini, ma Berlusconi e Renzi sono comunque fuorigioco. Berlusconi probabilmente sì, se non altro per superati limiti di età e mancanza di eredi all’altezza. Ma Renzi, nel bloccare in diretta televisiva ogni accordo tra Pd e Cinque Stelle, ha mostrato qualcosa di più – e di diverso – rispetto al “signornò” che si mette di traverso.
Bisogna ricordare che ha depositato un marchio che si rifà al movimento En Marche, del banchiere Emmanuel Macron. Mentre il Pd corre rapidissimamente verso la dissoluzione, il “giglio magico” si prepara a trasbordare su un altro vascello, che non avrebbe più i residui vincoli “valoriali” del vecchio Pd. Un vascello magari non grandissimo – i sondaggi lo accreditano del 10%, al massimo – ma sufficiente a spostare a favore della coalizione di centrodestra gli equilibri complessivi attuali e del prossimo futuro.
Resterebbero a quel punto da limitare le capacità espansive del “cavallo scosso” leghista, utile a rosicchiare malesseri altrimenti destinati ad altri lidi, ma certo non troppo rassicurante per partner europei abituati a genuflessioni senza discussione. A questo dovrà pensare soprattutto Berlusconi, tagliando tempi e format televisivi che hanno fin qui nutrito la galoppata di Salvini. Sarà un caso, ma i contratti ai Feltri, Belpietro, Giordano, Del Debbio, ecc, sono in via di risoluzione, con trasmissioni cancellate, spostamenti d’orario, ecc.
Vista da questa angolatura, insomma, i “no” dei due perdenti hanno tutto un altro senso, non finalizzati soltanto a un risultato immediato. Sono un passaggio necessario per “macinare i populismi”, per dimostrane l’impossibilità di realizzare in concreto quel che promettevano o ancora promettono.
Va bene, dirà qualcun altro, ma “tritare” questi due populismi non risolve il problema centrale: la rappresentanza del malessere sociale crescente, e che verrà certamente aggravato dall’andata a regime del Fiscal Compact, a partire dal 2019.
E’ vero. E questo apre spazi praticamente sconfinati a una forza popolare e antagonista che sappia interpretare quel malessere.
Ma non si può credere che – a livello dell’establishment europeo – sappiano prevedere tutto e trovare le giuste contrarie per ogni problema. Per ora “tritano” questi populismi; a far fuori altre forze ci penseranno poi, quando e soprattutto se saranno emerse, radicate, rese autorevoli da una pratica quotidiana chiara e indubitabile.
E’ necessario rendersene conto subito, tutti noi che stiamo lavorando a costruirla questa forza. La politica, in fondo, è la continuazione della guerra con altri mezzi. Non un “libero gioco democratico” dove vince il migliore e gli altri accettano pacificamente il risultato.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento