In questi giorni abbiamo vissuto il ritorno di provocazioni fasciste verso la memoria di Savona, città medaglia d’oro della Resistenza.
Un ritorno di vero e proprio sfregio alla memoria storica della Città e di quel tipo di provocazioni che, in passato, raggiunsero il punto di più elevato impatto attraverso il manifestarsi di una vera e propria “strategia della tensione” che portò, nell’inverno 1974 – 75, a ben 11 attentati dinamitardi al punto da provocare un morto, diversi feriti e molti danni materiali. Attentati dei quali è ancora ignota l’identità degli autori, ma ben chiara la matrice politica. Una vera e propria “strategia della tensione” che fu respinta grazie ad un grande moto popolare che diede luogo al fenomeno della vigilanza organizzata dalle istituzioni e dalle organizzazioni del movimento operaio, i cui militanti scrissero in quell’occasione una delle più belle pagine della nostra storia.
Allo scopo di ricostruire ciò che accadde a Savona all’indomani della Liberazione e fornire così un contributo a un rinnovarsi della memoria utile a respingere le attuali provocazioni sarà il caso, allora, di soffermarsi – facendo un passo indietro – sul periodo tra il 1945 e il 1960 quando il processo di ricostruzione fu portato avanti e compiuto.
Far quest’operazione di verità rappresenta, in questo momento, la miglior risposta a chi è tornato a scrivere di “camicie nere”.
Al 25 aprile del 1945 Savona presentava un panorama desolante: la Città era stata colpita duramente dai bombardamenti mentre l’occupazione nazi-fascista era risultata particolarmente feroce, soprattutto nei confronti degli operai delle grandi fabbriche resisi protagonisti di alcuni scioperi molto significativi, in particolare quello del 1° marzo 1944, in conclusione del quale oltre 100 operai di ILVA e Scarpa e Magnano erano stati deportati nel campo di sterminio di Mauthausen.
I macchinari delle fabbriche erano stati però difesi dal tentativo di razzia operato dai tedeschi e anche rispetto al Porto ne era stata scongiurata la distruzione totale.
Il compito che aspettava però i nuovi amministratori comunale risultava del tutto immane.
Le elezioni del marzo 1946 consegnarono una forte maggioranza ai partiti della sinistra, comunista e socialista e il sindaco comunista Andrea Aglietto già operaio della Scarpa e Magnano, nominato dal CLN al momento della Liberazione, fu confermato.
La sinistra a Savona vantava già un’esperienza di governo: nelle elezioni amministrative del 1920 la lista socialista aveva conseguito la maggioranza, eleggendo sindaco il fabbro ferraio Mario Accomasso che aveva partecipato ai moti spartachisti di Berlino nel 1919. Accomasso con tutta la giunta aveva poi aderito, nel 1921, al Partito Comunista d’Italia (la cui federazione regionale fu costituita proprio a Savona presente Antonio Gramsci, all’indomani del congresso di Livorno del gennaio 1921). Accomasso fu poi sostituito dal compagno di partito Bertolotto, prima che anche l’amministrazione comunale di Savona fosse costretta a cedere alla violenza fascista.
Il segno di quella “condizione di governo” era comunque rimasta a contraddistinguere la presenza di comunisti e socialisti pur ridotti nella clandestinità.
Sarebbe il caso, del resto, di segnalare la complessità culturale e politica della formazione del PCd’I a Savona: in un partito che, nel resto del territorio nazionale faceva riferimento in misura maggioritaria alle posizioni bordighiste e visse, in inimmaginabili condizioni di difficoltà materiale, il travaglio del passaggio da quelle posizioni alla svolta gramsciana (Lione, 1926), si segnalò nella nostra Città una consistente presenza ordinovista (Savona risultava al secondo posto dopo Torino come numero di abbonamenti alla rivista di Gramsci e Togliatti). In seguito si verificò una fusione particolarmente rilevante con i socialisti terzinternazionalisti di Serrati che nelle loro fila comprendevano anche il già citato futuro Sindaco Aglietto.
D’altro canto anche la presenza dei socialisti, nel corso del buio ventennio, si segnalò come provvista di particolare qualità: ne era espressione il punto di riferimento sempre rappresentato anche da lontano da Sandro Pertini; l’episodio del processo di Savona, con la fuga di Filippo Turati, la presenza in Città di una figura come quella rappresentata dall’avv. Vittorio Luzzati, difensore nel già citato processo di Ferruccio Parri e di Sandro Pertini, processo nel corso del quale la magistratura savonese dimostrò una propria capacità di indipendenza dal regime, rimasta unica nel corso del periodo della dittatura fascista.
Anche quello che poi sarebbe stato il filone azionista fu rappresentato a Savona da figure di altissimo rilievo e qualità morale come quella dell’avv. Cristoforo Astengo, uno dei grandi martiri che Savona ha offerto alla causa della Liberazione dal nazi–fascismo.
Torniamo però al tema della ricostruzione della Città esaminando le ragioni per le quali, in quel periodo, i partiti rappresentativi della classe operaia, comunisti e socialisti, esercitarono quella che può ben essere definita come egemonia:
1) Il ruolo esercitato nella lotta di Liberazione. Spero verrà scusato il metodo semplificatorio con cui quest’argomento è affrontato nell’occasione: sicuramente serve una maggiore articolazione nel racconto storico e nel giudizio (del tipo di quella emersa nell’opera fondamentale di Claudio Pavone, “Saggio storico sulla moralità della Resistenza). Ma in questo caso e al riguardo degli obiettivi che attraverso l’analisi in oggetto s’intendono perseguire sia consentita una valutazione particolarmente “tranchant”. I partiti di sinistra fornirono a Savona come in altre parti d’Italia un enorme contributo e soprattutto furono in grado, attraverso il ruolo mantenuto nel corso della lotta di Resistenza di sviluppare uno specifico dato di radicamento sociale poi espressosi con grande vigore proprio negli anni della ricostruzione;
2) La presenza nelle fabbriche. Questo secondo punto è direttamente collegato al primo, soprattutto rispetto allo svolgimento dei grandi scioperi operai del 1943 – 44 ai quali si è già accennato. Ma fu essenzialmente per la continuità di presenza nelle fabbriche che costituivano la gran parte del tessuto economico della Città e del suo hinterland nel corso del ventennio fascista che il riconoscimento dei partiti della classe operaia risultò indubitabile a guerra finita, in una dimensione sociale fortemente caratterizzata proprio dalla presenza degli operai delle fabbriche e del porto.
La fase di ricostruzione della Città si può considerare completata, tra alterne vicende che in quest’occasione non si enucleano nel dettaglio, all’inizio degli anni ’60 quando si presentò una nuova fase di sviluppo caratterizzata dall’espansione dell’insediamento urbano nell’Oltreletimbro e fu dunque caratterizzata da alcuni punti espressi dall’azione amministrativa della Giunta popolare e dai soggetti sociali, politici, economici che animavano la vita della Città.
Punti che possono essere così riassunti:
1) Il problema della ricostruzione materiale della Città duramente provata dagli innumerevoli bombardamenti aerei subiti nel corso del conflitto che ne avevano distrutto parti consistenti dei rioni dei Cassari e dei Fraveghi nel centro storico; alle Fornaci, a Zinola, a Legino nella periferia. In questa opera di ricostruzione urbanistica l’amministrazione cittadina si dimostrò, in allora, particolarmente aperta alle nuove idee che circolavano al tempo favorendo energie giovani in campo architettonico ma preoccupandosi di gettare perlomeno le basi adatte per affrontare il serio problema della casa per i non abbienti;
2) L’apertura di spazi di democrazia. Il supporto fornito dall’amministrazione comunale alle possibilità concrete di espressione politica, sociale, culturale si accompagnò a un periodo di grande vivacità in tutti i campi. Questi elementi furono portati avanti attraverso il tramite del consenso sociale e della forte operatività di massa che rappresentavano, in allora, il patrimonio più prezioso dei partiti di sinistra;
3) L’avvio di una politica dei servizi sociali. Ci si trovava all’epoca di fronte a una situazione molto difficile da questo punto di vista: gli strascichi del conflitto mondiale avevano creato situazioni molto estese di indigenza, emarginazione, povertà. Una situazione che fu affrontata attivando soprattutto tre filoni: quello della “solidarietà operaia”(risultavano in allora molto attive le mutue interne di fabbrica che svolsero un ruolo fondamentale) e, quello della democratizzazione dell’intervento nel sociale, quello dell’utilizzo al meglio dei compiti assegnati agli enti di assistenza dipendenti dal Comune, primo fra tutti l’E.C.A. alla cui presidenza si alternarono assessori di diretta provenienza operaia. Sul tema dei servizi sociali si intrecciò anche un dialogo con i cattolici, protagonisti il senatore Varaldo e l’onorevole Angiola Minella, ma i tempi non si dimostrarono maturi per una collaborazione diretta e il tutto rimase confinato in scambi giornalistici dalle colonne del “Letimbro” a quelle dell’Unità. ”Unità” che, all’epoca, nell’edizione genovese aveva spazio per due pagine di cronache savonesi curate prima da Pallavicini (un savonese che poi avrebbe ricoperto il ruolo di caporedattore centrale dell’edizione romana diretta da Ingrao), Ennio Elena e Angelo Luciano Germano e successivamente da Fausto Buffarello e Luciano Angelini.
4) L’ultimo punto di questa sommaria ricostruzione riguarda la fase tumultuosa che si dovette affrontare durante il processo di riconversione che, a cavallo degli anni’50, mise in discussione la presenza della grandi concentrazioni industriali soprattutto in campo siderurgico ed elettromeccanico. Naturalmente il problema risultava essere di dimensioni nazionali e internazionali. Il tema della riconversione dell’industria bellica coincise, nel nostro Paese, con quello della ricollocazione strategica dell’intervento pubblico in economia.
Si trattò di un periodo di elevatissima conflittualità sociale con frequenti scontri di piazza: la “celere” del ministro degli Interni Mario Scelba assurse a simbolo della repressione operaia. Savona colpita in pieno da una forte recessione occupazionale concentrata negli stabilimenti ILVA, messi in crisi dalla scelta di costruire il grande centro siderurgico “Oscar Sinigaglia” a Genova Cornigliano: scelta avvenuta proprio nel quadro di quella ricollocazione complessiva dell’intervento pubblico in economia cui si accennava e che rappresentò il punto di forza dell’interventismo democristiano nella gestione dell’economia della ricostruzione.
Savona si trovò al centro di questo tipo di episodi anche se, nella nostra Città, non accaddero fatti di assoluta drammaticità quali quelli avvenuti a Modena il 9 gennaio 1950 quando 5 operai delle ferriere Orsi Mangelli persero la vita uccisi dalla polizia. A Savona tutta la Città si unì in un vero e proprio afflato corale per difendere il proprio patrimonio industriale. L’Amministrazione Comunale di sinistra si schierò totalmente dalla parte degli operai (l’ILVA risultò occupata per molti mesi nell’inverno 1951) formando con il sindacato un blocco fortemente coeso e puntando anche su di una certa qualità di proposta e su di una grande capacità di attivizzazione sociale, tale da coinvolgere larga parte della Città nella difesa dei posti di lavoro: molti ricorderanno come nel corso dei grandi scioperi che contraddistinsero quel periodo risultava spontanea l’adesione di commercianti e artigiani.
Alla fine, siamo nella prima metà degli anni’50, nell’ambito di un rafforzamento dell’intervento dello Stato in alcuni settori strategici dell’industria con l’allargamento del sistema di Partecipazioni Statali (nel 1956 fu istituito un apposito Ministero) strettamente collegato alla crescita di potere della corrente fanfaniana della DC, Savona uscì sicuramente ridimensionata nella sua presenza industriale ma ancora in possesso dei suoi settori più significativi. Il declino vero e proprio si avviò nel decennio successivo soprattutto accumulando ritardo sul piano del know-how e avviandosi il fenomeno determinante della “fuga dei cervelli”.
Questa ricostruzione potrebbe andare avanti inoltrandosi nel tempo ma è il caso di fermarci a questo punto. Il senso della “Savona operaia” come risposta alle provocazioni fasciste di questi giorni dovrebbe essere stato individuato. La ricostruzione della Città fu realizzata, tra il 1945 e il 1960, grazie ai Partigiani, agli operai, alle istituzioni locali guidate dai grandi partiti di massa della sinistra comunista e socialista.
Riflettere su questi passaggi fondamentali della nostra storia, di quella che può essere considerata davvero la biografia della Città, rappresenta la migliore risposta alle provocazioni fasciste in atto in questi giorni.
Si segnala, infine, una minima bibliografia. Dal punto di vista della ricostruzione storica: “Quelli del PCI” , tre volumi usciti all’inizio degli anni 2000 per cura di Sergio Tortarolo con Guido Malandra e Giancarlo Berruti; “Savona, l’identità perduta” di Giovanni Burzio, Luciano Angelini, Franco Astengo pubblicato nel 2015; “Gli Amministratori della Città”, pubblicato nel 2002 su iniziativa della presidenza del consiglio comunale allora retta da Sergio Tortarolo, volume curato da Bruno Vadone con prefazione di Giagi Assereto e testi di Alberto Bianco, Silvia Bottaro, Franco Astengo. Da ricordare assolutamente, inoltre,i vari testi contenuti nella collana di “Quaderni Savonesi” editi dall’ISREC tra il 2006 e il 2015, soprattutto per impulso del compianto ex-Sindaco Umberto Scardaoni.
Da non dimenticare, infine, sul piano letterario la riedizione del fondamentale “Gli Innocenti” di Guido Seborga uscito nel 2006 per SAGEP.
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