Leggenda vuole che molti e molti anni
orsono uno sbruffone si vantasse sguaiatamente delle sue gesta. In
particolare sosteneva, lo sbruffone, di poter saltare da un piede
all’altro del colosso di Rodi. La leggenda racconta anche che non ci
volle poi molto a verificare la consistenza delle fanfaronate dello
sbruffone. Bastò infatti che uno degli astanti proponesse all’incauto
millantatore “Hic Rhodus, hic salta” (fai conto che questa sia Rodi, facci vedere quello che sai fare), per riportarlo a più miti consigli.
Molta acqua è passata sotto i ponti da allora, eppure una vicenda simile si ripete in questi giorni di fronte ai nostri occhi. Secondo un copione già visto, Matteo Salvini ha passato le ultime settimane, non a caso coincidenti con la campagna elettorale,
a promettere grandi sconvolgimenti. Basta con l’austerità che ci
soffoca! No all’adesione cieca a regole di bilancio che causano
disoccupazione e miseria! E se all’Europa non va bene, peggio per lei,
ce ne faremo una ragione! Apparentemente il trucco ha funzionato, ancora
una volta. Nonostante un anno di governo all’insegna dell’austerità
e della continuità totale con i governi che l’hanno preceduto, il
leader della Lega è riuscito di nuovo a presentarsi all’elettorato come
l’(unica) alternativa ai sacrifici imposti dai Trattati europei e a
capitalizzare un impasto esplosivo di rabbia e rancori di una piccola e
media borghesia sempre più incattivita. Nelle ore immediatamente
successive alle elezioni, Salvini ha rincarato la dose, promettendo una
rivoluzione fiscale quantificabile in 30 miliardi di euro di tagli alle
tasse, sotto forma di flat tax per i redditi delle imprese e
delle famiglie con un reddito fino a 50.000 euro. Il tutto infarcito dal
campionario standard con cui Salvini ha mascherato il suo nulla negli
ultimi 12 mesi: “non sto a impiccarmi a un parametro, un numero o una regoletta”, “l’era della precarietà e dell’austerità si è conclusa”, non ci importa di “rispettare gli zero virgola”.
Sembra di rivedere esattamente il balletto che accompagnò
l’approvazione dell’ultima Legge Finanziaria, balletto che si concluse,
come tutti ricordiamo, con l’accettazione anche dell’ultimo “zero
virgola” e della più infima “regoletta” imposti dalle istituzioni
europee.
Un meccanismo identico si è appena rimesso in moto. L’Italia ha, infatti, ricevuto una lettera
della Commissione Europea, in merito al mancato adempimento degli
impegni presi in termini di riduzione del debito pubblico. L’ennesimo
dispositivo disciplinante è quindi già all’opera e avrà un suo passaggio
cruciale entro la prima decade di luglio, scadenza entro la quale o
avremo fatto tutti i compiti a casa o saremo oggetto di una procedura
ufficiale per debito eccessivo.
Al di là delle promesse e delle
fanfaronate da campagna elettorale, i numeri che contano davvero, quelli
con cui questo Governo si confronterà nei prossimi mesi sono quindi
altri. Allo stato attuale, la Commissione Europea prevede che nel 2020
il rapporto tra deficit e PIL per l’Italia sarà al 3,5%. Il Governo si è
però impegnato, con l’ultima Legge Finanziaria, a portare questo
indicatore al 2,1%. Lo stesso Governo ha già anche messo nero su bianco
che, in mancanza di misure alternative, parte delle risorse necessarie
ad abbattere il deficit verranno da un aumento del gettito IVA di 23
miliardi. Detto altrimenti, o il Governo aumenta l’IVA o taglia risorse
altrove (sanità, istruzione, infrastrutture, chi più ne ha più ne metta)
per un pari ammontare. E non finisce qui: secondo i calcoli del cane da guardia dell’austerità Cottarelli,
per raggiungere l’obiettivo che il Governo si è prefissato sarebbero
necessari ulteriori tagli per 4 miliardi di euro, dovuti alla minore
crescita che il PIL italiano sperimenterà rispetto alle previsioni. Come
se non bastasse, la Commissione Europea chiederà ulteriori tagli alle
spese e aumenti delle tasse per un ammontare di 9 miliardi, per
riportare il Paese sui binari del piano di rientro volto a conseguire
quelli che eufemisticamente vengono definiti ‘obiettivi di medio
termine’.
Tenendo fermo tutto il resto, ci troviamo di fronte ad una
prossima manovra già scritta, che dovrà apportare e apporterà circa 36
miliardi di sacrifici, lacrime e sangue. In questo scenario fosco,
entrano in gioco le ultime sparate di Salvini, con i suoi 30 miliardi di
tagli alle tasse. Non è ancora chiaro come queste misure si
declineranno concretamente e come verranno scaglionate nel tempo. A
sentire Cottarelli, una stima ragionevole e prudenziale per l’anno
prossimo, qualora si volesse davvero dare uno shock fiscale,
dovrebbe essere di almeno 15 miliardi di riduzione del carico fiscale.
In linea di principio, qualora davvero il Governo volesse applicare
queste misure, due possibilità si aprirebbero. La prima prevedrebbe di
tagliare altrove spese per lo stesso ammontare. In tal modo si
continuerebbero a rispettare gli obiettivi in termini di deficit per il
2020, al costo di una manovra finanziaria stimabile intorno ai 50
miliardi con un mix letale di tagli alla spesa pubblica, aumento
dell’IVA e soppressione selvaggia di esenzioni e benefici vari. La
strada alternativa sarebbe finanziare la flat tax in deficit,
senza cioè prevedere una copertura in termini di minori spese o
maggiori entrate in altri segmenti del bilancio dello Stato ma facendo
ricorso all’indebitamento. Cosa che comporterebbe, ovviamente, lo
sforamento dei parametri che il Governo gialloverde si è impegnato a
rispettare.
La campagna elettorale è ancora troppo
fresca e Salvini ammicca insistentemente alla seconda opzione. In virtù
del mandato elettorale ricevuto, si dice pronto a rimettere in
discussione i parametri di rigore fiscale imposti dall’Unione Europea,
provando a convincere i partner europei del fatto che l’austerità
strangola l’economia italiana. Non ci vuole però molto a capire che
dietro le parole di Salvini c’è il nulla. Anche tralasciando il fatto
(che in sé rappresenta un ostacolo insormontabile) che per modificare i
Trattati che l’austerità l’impongono sarebbe necessaria l’unanimità dei
Paesi membri, il punto davvero rilevante è tutto politico. Salvini, la
Lega ed il loro blocco sociale di riferimento si trovano benissimo
all’interno della gabbia della compatibilità con i vincoli europei. E
non saranno certo due campagne elettorali all’insegna del cosiddetto
‘populismo’ a cancellare il fatto che la Lega è nata per interpretare il
ruolo di strenuo difensore di un sistema economico basato su liberismo
sfrenato, deregolamentazione dei mercati e sfruttamento del lavoro.
In
mancanza della volontà politica di spezzare la morsa di un sistema di
relazioni economiche di tale fattura, ogni minaccia di disattendere i
vincoli che la Commissione Europea ci imporrà è una vuota chiacchiera,
buona solamente per la campagna elettorale. E mentre Salvini occupa il
proscenio, nelle retrovie già si inizia a mostrare quale sarà
l’atteggiamento adottato dalla Lega sui tavoli che contano, tra il
viceministro Garavaglia che garantisce che la Lega non ha alcuna intenzione di sforare i parametri europei in termini di deficit pubblico e il fu profeta ‘no Euro’ (e oggi macchietta a tempo pieno) Borghi che cautamente propone l’Italia per un seggio nel Board della Banca Centrale Europea, in virtù del quale fare “proposte sulla governance”, tra cui un incendiario Quantitative Easing
sulle infrastrutture e fuffa assortita. Sostanzialmente il niente, che
prefigura un rapido abbandono da parte della Lega dei bellicosi
propositi con cui ha intrattenuto la platea nelle ultime settimane e
un rientro nei ranghi alla spicciolata, con una prossima Legge
Finanziaria scritta ancora una volta a Bruxelles.
Di fronte a questo vicolo cieco, rimane
da capire come Salvini e la Lega proveranno anche questa volta a salvare
la faccia. Dato per assodato che non ci sarà nessuna contrapposizione
reale con le istituzioni europee, la partita si giocherà tutta sul piano
interno. È verosimile che la Lega cercherà di forzare la mano,
all’interno del Governo, per un’approvazione rapida e senza pietà di
tutta una serie di misure bandiera, facilmente agitabili e con il pregio
di essere a costo zero: Decreto Sicurezza, ulteriore stretta e
imbarbarimento sull’immigrazione, TAV e cementificazione del territorio e
compagnia cantante. Al di là delle promesse di andare a spezzare le
reni all’Europa, l’unica faglia nella quale la Lega può davvero
inserirsi è quella da aprire all’interno del Governo. A questo punto si
aprirebbero due possibilità: o i 5 Stelle continuano a portare acqua con
le orecchie alla Lega e ingoiano tutto oppure si cerca un pretesto e
cade il Governo. Nel primo caso, la Lega dovrebbe sperare che il muro di
fumo sollevato dal cavalcare il razzismo, spaccare il Paese e deturpare il territorio in nome del progresso siano sufficienti a far dimenticare l’acquiescenza totale ai diktat
europei in materia di finanze pubbliche. Nel secondo, si
materializzerebbe il capolavoro di lasciare la patata bollente della
prossima Legge Finanziaria ad una eventuale nuova maggioranza dei
responsabili, ruolo che sembra cucito su misura per gli utili idioti del
Partito Democratico, per restituire alla Lega una verginità di
combattenti contro il cieco rigore imposto da Bruxelles. In ciascuno dei
due casi l’austerità continuerà imperterrita, l’economia italiana
rimarrà avviluppata nella spirale di stagnazione, disoccupazione e
salari da fame che ci soffoca da più di venti anni e pochi privilegiati
continueranno a prosperare sulle spalle dei molti. Uno scenario che i
‘mercati’ hanno già chiarissimo, tanto è vero che l’agenzia di rating Moody’s non ha avuto problemi a ridimensionare l’impatto delle appena trascorse elezioni europee, dichiarando esplicitamente che non c’è da attendersi nessun “cambiamento delle politiche che governano l’UE o l’Eurozona” e che le elezioni sono state “credit neutral”.
Niente di nuovo sotto il sole,
semplicemente la Lega che getta la maschera, cucita su misura per la
campagna elettorale, e che torna a indossare gli abiti, che più le sono
propri e che l’accompagnano fin dalla fondazione, di forza politica a
difesa degli interessi di padroni e padroncini del Nord Italia.
In questo scenario, le ultime ore sono
state frenetiche. Nel primo pomeriggio (del 31 maggio) circolava una
bozza di risposta alla lettera della Commissione, in cui il Governo
gialloverde – lo stesso che passa il tempo a raccontarci quanto sia
arrabbiato con l’Europa – più che una dichiarazione di guerra dava vita
ad una lettera d’amore per i guardiani dei conti. Il Ministro Tria
spiegava infatti ai burocrati di Bruxelles che l’Italia non ha alcuna
intenzione di deviare dalla più rigida disciplina fiscale richiesta
dall’Europa, proprio quella disciplina che mette in ginocchio il Paese e
alimenta il voto di protesta raccolto da Lega e 5Stelle.
In
particolare, due erano i pilastri delle argomentazioni attribuite al
Governo per tranquillizzare l’Europa. Il primo sarebbe stato un vero e
proprio impegno a ridurre la spesa sociale nei prossimi tre anni: “Dal
lato della spesa, il governo sta avviando una nuova revisione della
spesa e riteniamo che sarà possibile ridurre le proiezioni di spesa per
le nuove politiche in materia di welfare nel periodo 2020-2022”. In
buona sostanza, tagli a pensioni e reddito di cittadinanza – ma anche
sanità, istruzione, infrastrutture, pur di garantire il rigore dei conti
pubblici. Forse ancor più interessante, politicamente, il secondo
passaggio chiave della missiva, nel quale il Governo si sarebbe detto
“convinto che una volta che il programma di bilancio sarà finalizzato in
accordo con la Commissione europea, i rendimenti dei titoli di Stato
italiani diminuiranno e le proiezioni relative alla spesa per interessi
saranno riviste al ribasso”.
In parole povere, il Governo sembrava prevedere pace totale con le istituzioni europee,
condizione necessaria a calmare i mercati, contenere i rendimenti sui
titoli di Stato e quindi il costo del debito pubblico: l’esatto
contrario del “me ne frego dello spread” che Salvini continua a
ripetere spavaldamente. Sarebbe quindi bastato un richiamo da Bruxelles
per trascinare Salvini fuori dalla campagna elettorale e riportarlo con i
piedi per terra, lì dove svolge attentamente il suo compito di
guardiano dell’austerità: se ne frega eccome, dello spread, tanto
da sacrificare sull’altare della compatibilità con l’Europa la spesa
sociale, la crescita e l’occupazione.
Poche ore più tardi Tria ha
smentito categoricamente i contenuti della presunta risposta, come erano
stati riportati da tutti i mezzi di stampa. Evidentemente qualche
squallida baruffa all’interno del Governo, aizzata dai 5 Stelle in
chiave tattica contro la Lega, ha per il momento consigliato una
posizione più prudente. Del tipo: austerità sì, ma non diciamolo così
esplicitamente e così immediatamente.
Come si esce da questo pantano? Non c’è
evidentemente nessuna scorciatoia disponibile. C’è però un’unica via
percorribile, che passa per la costruzione e il consolidamento di una
forza di sinistra di classe che sappia smascherare le falsità di Lega (e
5 Stelle) senza cadere nella tentazione di tifare ‘forza spread’
e che riesca soprattutto a contendere e strappare a Lega e 5 Stelle il
monopolio della battaglia contro l’austerità di matrice europea. Se i
pagliacci al governo ci hanno insegnato qualcosa è che senza una reale
volontà politica di rottura ogni velleità ha vita breve. Ci hanno anche
mostrato che si può finire molto rapidamente a ricoprire il ruolo di
esecutori di seconda tacca dei desiderata di un dispositivo politico
fatto per comprimere i salari e redistribuire il reddito a favore del
capitale. Il cammino sarà lungo e probabilmente non l’abbiamo neanche
iniziato, ma l’alternativa a questo cammino è un eterno rimpallarsi tra europeisti liberisti e nazionalisti liberisti, due facce della stessa triste medaglia.
L’articolo è stato modificato alle
18.53 del 31 maggio, dopo che il Ministro Tria ha smentito le
‘indiscrezioni’, riportate da tutti gli organi di stampa, in merito ai
contenuti della lettera di risposta alla Commissione Europea
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