Tanto tuonò che... La pioggia ancora non cade, ma i fulmini si vedono già distintamente all’orizzonte. Sembra precipitare la situazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo. Il raid dei giorni scorsi, di reparti speciali kosovari contro alcune municipalità serbe nel nord della provincia di Kosovo e Metohija e l’arresto di 28 serbi – tra gli arrestati, anche il diplomatico russo della missione ONU (UNMIK) Mikhail Krasnoščekov, rimasto ferito e poi dichiarato “persona non grata” dal cosiddetto primo ministro kosovaro Ramush Haradinaj – testimonia dell’intenzione di Priština di realizzare le proprie mire coi metodi tipici del UÇK, cacciando la popolazione serba e stabilendo il proprio controllo sull’area.
Immediata la reazione di Belgrado, come accaduto anche lo scorso autunno, che ha mobilitato l’esercito. Nonostante gli accordi raggiunti in passato con l’intermediazione di USA e UE, Priština approfitta proprio della copertura euro-americana per concretizzare i propri obiettivi.
La Tass scriveva ieri dello “stupore” del Presidente serbo Aleksandar Vučić per l’assenza di reazioni UE al rifiuto dell’autoproclamato presidente kosovaro Hashim Thaçi di adempiere agli accordi di Bruxelles dell’aprile 2013, che prevedono la creazione di una Comunità di municipalità serbe in Kosovo. “Per me“, ha detto Vučić, “più importante delle parole di Thaçi è il fatto che tedeschi, francesi e britannici tacciano, che Bruxelles taccia. Quel documento era stato firmato da Hashim Thaçi e Ivits Dačić alla presenza di Catherine Ashton; non c’era San Pietro, c’era Catherine Ashton, quale alta rappresentante UE. Se la UE non è in grado di garantire gli accordi cui ha preso parte, che lo dica, in modo che sappiamo che quegli accordi non hanno più alcuna forza; ma allora le cose si svilupperanno in modo diverso“.
Sul mensile russo Vita internazionale il politologo Pëtr Iskenderov osserva come l’attuale acutizzarsi della situazione sia il più grave dal 2004, quando si registrarono numerosi pogròm anti-serbi e dimostra l’urgenza di una difesa attiva dei serbi del Kosovo, venutisi a trovare in “un isolamento politico-militare ed economico”.
Ma c’è anche un aspetto interno, continua Iskenderov, che riguarda sia Belgrado che Priština: cioè i tentativi di inasprire la situazione, senza perdere però il controllo su di essa e far passare nell’opinione pubblica la necessità dell’accordo bilaterale sulla normalizzazione delle relazioni, impopolare tra i nazionalisti, ma di cui Aleksandar Vučić aveva di nuovo insistito appena due giorni prima del raid kosovaro, intervenendo in Parlamento. Vučić aveva invitato i deputati a riconoscere l’assenza “di un potere serbo in Kosovo e Metohija, il che è importante per servizi sanitari e istruzione”. Secondo Vučić, sono possibili al momento due scenari: mantenimento dello status quo e di conflitto congelato, oppure normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Priština; e lui si esprime per la seconda variante.
A detta del politologo bulgaro Dimitar Bečev, Vučić rimane fedele all’idea di un accordo che implicherebbe il riconoscimento de facto dell’indipendenza del Kosovo, in cambio dell’ingresso della Serbia nella UE; al tempo stesso, desidererebbe concessioni da parte del Kosovo, ad esempio, uno status autonomo dei territori settentrionali del Kosovo o loro trasferimento a Belgrado.
Vučić è però costretto a tener conto anche della situazione interna non esattamente tranquilla e del ricatto di Bruxelles per l’adesione alla UE, mentre l’ex comandante dei tagliagole del UÇK, Hashim Thaçi, non fa assolutamente mistero dei disegni di unire la provincia a una “Grande Albania”.
Nei piani euro-americani per una “sistemazione” dei rapporti serbo-kosovari, conclude Iskenderov, si sta già insinuando la prospettiva di un rafforzamento dei legami di Belgrado con USA e NATO e l’apertura di una base americana nell’area di Ponikve, nelle immediate vicinanze della Republika Srpska di Bosnia, la qual cosa non potrebbe certo lasciare indifferente Mosca.
Anche da Sofia si sono manifestate preoccupazioni per l’acutizzarsi della situazione e, soprattutto, per i disegni della “Grande Albania”: una prospettiva, si dice, che deve mettere in guardia tutti i Balcani, dato che crisi come quella degli ultimi giorni rientrano proprio in tale disegno, che va delineandosi anche in Montenegro e Macedonia.
Sul portale russo News Front, la pubblicista bulgara Asia Zuan ricorda come, lo scorso aprile, sostenitori della “Grande Albania” avessero issato un’enorme bandiera albanese sulla fortezza del re bulgaro Samuel a Ohrid, nella Macedonia settentrionale, e riporta le parole dello storico bulgaro Plamen Pavlov, secondo cui quel gesto rappresenti un “attentato al patrimonio storico bulgaro. Non c’è dubbio che il nazionalismo albanese di oggi stia costruendo sogni di una Grande Albania e alterando i confini dei Balcani, e si senta quasi padrone del futuro”.
Tuttavia, questa visione è dolorosamente ingenua, ambiziosa ed errata, afferma Pavlov, dal momento che i popoli balcanici non rimarranno con le mani in mano. Il rischio sta nel fatto che chi dall’esterno guida le azioni kosovare ha dato luce verde alla trasformazione della regione in un territorio mono-etnico, con la susseguente unione all’Albania.
Che il fattore albanese venga utilizzato per una redistribuzione dei Balcani, dice Asia Zuan, è confermato anche dal rinvenimento di alcune “istruzioni speciali” e da certi movimenti che stanno a indicare una “islamizzazione strisciante” dell’intera regione, con la creazione di un asse turco-albanese. Il tutto, sotto la regia di USA, UE e Gran Bretagna, che sembra preannunciare un “inglobamento” dei Balcani occidentali nella UE, con élite locali “leali”.
La strategia messa a punto dal Consiglio atlantico prevede inoltre una presenza permanente USA nell’area, un “avvicinamento” della Serbia quale partner di Washington e il sostegno a movimenti giovanili e imprenditoriali: in pratica, si può dire, la solita strategia USAID. Il tutto, avente come perno la base NATO “Bondsteel” in Kosovo e facendo leva sul nazionalismo albanese, per influire su Macedonia, Grecia, Montenegro e Serbia, con Londra che, tradizionalmente interessata alla regione balcanica, si starebbe ritagliando un ruolo speciale di arbitro, sognando di lasciare in secondo piano USA e UE.
Difficile pensare a una casualità, nel fatto che la provocazione kosovara sia stata attuata proprio in questi giorni: iniziano infatti il 4 giugno in Bulgaria le esercitazioni NATO “Shabla-2019” che, per tutto il mese di giugno, insieme a “Sabre Guardian-2019”, “Strike Back-2019” e “Swift Response-2019”, coinvolgono i territori di Bulgaria, Romania, Ungheria, Croazia, Slovenia e Macedonia settentrionale, con circa seimila soldati da Bulgaria, USA, Gran Bretagna, Ucraina, Grecia, Macedonia settentrionale, Canada e Italia.
Il Ministro della difesa di Belgrado, Aleksandar Vulin ha dichiarato a Vita internazionale che, con tale provocazione, “Priština contava sul fatto che Belgrado avrebbe reagito per via militare; allora essi si sarebbero lamentati presso la NATO e questa sarebbe ricorsa alla forza contro la Serbia”.
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