di Michele Giorgio
«Difensivi, proporzionati e
una risposta diretta alla minaccia posta dai gruppi armati pro-Iran che
continuano ad attaccare le basi che ospitano la Coalizione a guida Usa». Così il Pentagono ha spiegato i raid aerei
compiuti l’altra notte nelle regioni centro meridionali irachene di
Karbala, Babel e Wasit contro le Kataib Hezbollah parte delle
filo-iraniane Unità di mobilitazione popolare (Pmu). E ha
avvertito che questi gruppi «devono interrompere i loro attacchi
altrimenti ne subiranno le conseguenze». Washington perciò afferma di
aver attuato una ritorsione per l’attacco con razzi Katyusha dell’11
marzo contro Camp Taji, a nord di Baghdad, in cui sono rimasti uccisi
due militari statunitensi e una soldatessa britannica.
Il generale Kenneth McKenzie, alla guida del comando centrale Usa nel
Golfo, ha inoltre annunciato l’attivazione, entro «pochi giorni», dei
sistemi antimissili Patriot. Non servono a intercettare i Katyusha ma,
ha spiegato McKenzie, sono utili «contro il tipo di attacco perpetrato
dall’Iran all’inizio di gennaio». Gli Usa, ne consegue, si preparano a
una nuova escalation con Tehran dopo quella seguita all’assassinio del
generale iraniano Qassem Soleimani ordinato da Donald Trump all’inizio
dell’anno. L’Iran in quella occasione reagì con il lancio di missili
balistici contro la base di Ayn al-Asad in Iraq senza fare morti tra i
militari americani.
L’accaduto ha scatenato in Iraq – nel pieno di una complessa
crisi politica e paralizzato da mesi di massicce proteste popolari
contro corruzione, disoccupazione e settarismo – una nuova ondata di
polemiche contro la presenza militare degli Stati Uniti. Lo
sdegno è ancora più forte perché gli aerei Usa hanno ucciso sei persone
non coinvolte (pare) in attività paramilitari: tre soldati, due
poliziotti e un operaio. Il raid ha preso di mira in particolare la
19esima divisione dell’Esercito iracheno, il quartier generale del
46esima divisione delle Pmu e il terzo reggimento di polizia nella
provincia di Baqbele. Colpite le aree di Jurf al Nasr, Al Saeedat,
Behbehani, l’ex impianto di produzione militare di Ashtar e l’aeroporto
in costruzione a Karbala.
Il ministero degli esteri iracheno ieri ha convocato gli
ambasciatori statunitense e britannico. E ha diffuso un comunicato di
protesta: «Il bombardamento di infrastrutture civili e militari
da parte degli Stati Uniti mina gli sforzi contro il terrorismo e viola
l’accordo in essere tra l’Iraq e la Coalizione internazionale contro lo
Stato islamico». Una denuncia è giunta anche dall’ufficio dell’ayatollah Ali Sistani, la più importante autorità religiosa sciita. Un
noto deputato Naim al Aboudi, vicino alle Pmu, ha commentato su Twitter
che «l’America può uccidere persone innocenti, ma non sarà in grado di
rimanere su questa terra a lungo e si coprirà di vergogna». E da Tehran
il portavoce del ministero degli esteri iraniano, Abbas Mousavi,
rivolgendosi a Trump lo ha caldamente invitato a ritirare le forze Usa
dall’Iraq, lasciando intendere che, in caso contrario, rimarranno un
obiettivo.
In Iraq sono schierati quasi 6.000 soldati statunitensi,
insieme a circa 4.000 di altre nazioni occidentali, tra cui 1.100
italiani e 500 soldati britannici. All’indomani dell’uccisione
di Soleimani il parlamento di Baghdad aveva approvato una proposta – non
vincolante – per l’espulsione di tutte le truppe straniere presenti sul
territorio. Il tutto mentre la guerra del barile di petrolio tra Russia e Arabia
Saudita ha fatto crollare il prezzo del greggio con grave danno per le
entrate di valuta pregiata nella casse di Baghdad.
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