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05/10/2021

Pandora Papers: ecco perché tolleriamo paradisi fiscali ed evasori

di Alberto Negri - Quotidiano del Sud

Fa parte del gioco: dall’Unione europea alla Gran Bretagna si fa finta di non vedere quello che è sotto gli occhi di tutti. Il caso Blair.

Cose nuove e cose risapute ma soprattutto una domanda: perché il dossier “Pandora Papers” sui conti nei paradisi fiscali è un’inchiesta giornalistica e non un’indagine della finanza e delle autorità competenti dei vari Paesi? La risposta è semplice: c’è una larga connivenza a livello internazionale che lascia prosperare i paradisi fiscali e i metodi illegali travestiti da legalità. L’ipocrisia fiscale è il vero male da combattere: i ricchi evadono, i poveri pagano.

Dopo di che possiamo anche divertirci con i nomi contenuti nell’inchiesta che è destinata a restare un gossip giornalistico, sia pure ben documentato, se non ci saranno conseguenze e indagini della magistratura e della polizia internazionale. È chiaro che per avere indagini serve una decisione politica ben precisa che è quella di farla finita con i paradisi fiscali mentre la gente comune paga regolarmente le tasse e i servizi che usano anche questi delinquenti in giacca e cravatta, in diversi casi non solo politici ma anche uomini dello spettacolo, dello sport, ovvero idoli delle folle e dei social. Non si tratta di fare una caccia alle streghe ma di avviare indagini delle autorità competenti serie su evasori fiscali e paradisi fiscali.

“Pandora Papers” è un’inchiesta coordinata dall’International Consortium of Investigative Journalists, che svela le operazioni off-shore di decine di figure di spicco di oltre 90 stati, arriva fino in Italia. È basata su circa 12 milioni di documenti relativi a oltre 25 anni di attività, l’indagine è frutto delle rivelazioni di una fonte interna allo studio legale Alemán, Cordero, Galindo & Lee e testimonia l’esistenza di oltre 29 mila beneficiari di società offshore, intenzionati a occultare in paradisi fiscali parte delle loro ingenti ricchezze per sfuggire al fisco. L’inchiesta, come i “Panama Files”, mette in fila operazioni, in alcuni casi al limite della legalità, messe in atto da 14 società internazionali incaricate da clienti facoltosi nel gestire capitali miliardari. Nella maggior parte dei casi l’attività principale è stata creare strutture “offshore” e “trust” in paradisi fiscali come Panama, Dubai, Isole Cayman e in paesi deve la riservatezza mette al riparo da controlli fiscali, come Monaco e Svizzera.

E non c’è forse neppure bisogno di andare troppo sull’esotico per rincorrere i paradisi fiscali: alcuni come l’Olanda li abbiamo nel cuore dell’Europa magari non riguardano singole persone ma ancora peggio intere multinazionali. Da tempo abbiamo scoperto che l’Olanda è un paradiso fiscale di cui hanno approfittato le multinazionali e anche tante aziende italiane famose come Luxottica, Ferrero Campari, Exor, holding della famiglia Agnelli, e Mediaset.

Sono cose davanti agli occhi di tutti ma che l’Unione europea tollera, come tollera che la “frugale” Olanda faccia la morale ai Paesi europei come l’Italia che non hanno i conti in ordine. Non è un caso che nell’elenco degli azionisti schermati dal velo delle società offshore ci sia anche il ministro olandese dell’Economia, oltre al premier della Repubblica Ceca, l’ex capo del governo britannico Tony Blair, il Re di Giordania e presidenti in carica di Paesi come Ucraina, Kenya, Cile, Ecuador. Nella lista spiccano i nomi di molte celebrità dello sport, della moda e dello spettacolo. Ma ci sono anche criminali. Ex terroristi. Bancarottieri. Trafficanti di droga. E boss mafiosi, anche italiani, con i loro tesorieri.

Insomma c’è un’ipocrisia ai massimi livelli istituzionali internazionali che poi è anche quella che consente di prosperare ai paradisi fiscali fuori dell’Europa. Va bene indagare sui paradisi fiscali ma prima ancora l’Unione europea deve fare pulizia dentro casa.

Facciamo qualche esempio che forse non è contemplato nei Panama Papers. La Gran Bretagna custodisce da anni, cioè da quando era ancora membro dell’Unione europea, il tesoro di Gheddafi, ovvero un patrimonio di beni e partecipazioni societarie stimato in 12 miliardi di dollari, dove dentro ci sono sicuramente società offshore nei paradisi fiscali. I governi di Londra, negli ultimi anni, avrebbero ricavato dal patrimonio dell’ex Raìs libico, tra tasse, dividendi e interessi, oltre 17 milioni di sterline, soltanto nel periodo dal 2015 al 2018. In parte questi soldi sono stati destinati ai famigliari delle vittime dell’Ira, il terrorismo nord-irlandese. Ora non si capisce perché la Gran Bretagna, che nel 2011 insieme a Francia e Usa ha bombardato Gheddafi gettando poi il Paese nel caos, debba gestire questi soldi che dovrebbero essere restituiti al popolo libico. A Londra Gheddafi i soldi ce li metteva, finanziando persino università come la London School of Ecomomics, perchè gli inglesi gli garantivano un regime fiscale favorevole.

Insomma Londra è un paradiso fiscale gestito come una bisca e all’occorrenza sostenuto dalle armi quando si vuole far fuori qualche dittatore scomodo.

Se noi accettiamo questo accettiamo tutto, anche i paradisi fiscali. Il nome di Tony Blair è emblematico. Questo signore è un mascalzone che con Bush junior sostenne che l’Iraq di Saddam Hussein possedeva armi di distruzione di massa pur di bombardare l’Iraq aprendo il vero vaso di Pandora del disastro mediorientale con cui facciamo i conti ancora adesso. Il suo nome compare da anni nei peggiori affari internazionali – vendeva armi anche a Gheddafi – e ha persino ricoperto la carica di inviato per la pace in Medio Oriente, un ruolo che gli ha consentito di riscuotere cospicue consulenze da numerosi governi. Blair è uno dei diversi esempi di leader politici che non solo dovrebbero rispondere di evasione fiscale ma anche di crimini di guerra e contro l’umanità. Che il suo nome e quello di altri dittatori e cacicchi compaia anche nei Pandora Papers non stupisce. Stupisce che tutti questi siano ancora a piede libero e prosperino ai danni di tutti.

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