Il polverone ancora non è calato sui risultati del voto, ma qualche caratteristica strutturale è sicuramente già emersa.
In questa tornata di elezioni amministrative siamo ripiombati improvvisamente al “bipolarismo obbligato”, alla finta contrapposizione tra centrodestra e centrosinistra (lo scambio di salamelecchi in diretta tra il forzista Occhiuto, nuovo presidente della Calabria, ed Enrico Letta, facile conquistatore del seggio alla Camera di Siena, vacante dopo il passaggio di Padoan alla guida di Unicredit, sta lì a dimostrarlo).
È uno schema molto confortevole per la classe dirigente, perché impedisce o rende difficilissima l’emersione di una alternativa. Di qualsiasi genere, non necessariamente “rivoluzionaria”.
Ma ha un difetto. Tende ad eliminare il consenso popolare, visto che le politiche fatte di comune accordo – tra centrodx e centrosx – nella cornice di soluzioni indicate dall’Unione Europea continuano sistematicamente a bombardare quanto resta del “modello sociale” pre-neoliberista. L’aumento-monstre delle bollette, ancora non arrivate per posta, è solo uno dei tanti esempi.
E quindi l’astensionismo riprende a crescere rapidissimamente. La partecipazione al voto è stata complessivamente del 54,69%, ma nelle città metropolitane – le cinque principali, quelle dove le differenze di classe sono più nette e visibili, con meno gradi “intermedi” – è scesa sotto il 50%.
A riprova ci sono i dati dei singoli quartieri. A Roma, Tor Bella Monaca ha fornito solo il 42,85% del potenziale, mentre Parioli ha contribuito al 56,67%. A Siena, per elevare Letta alla Camera, ha votato appena un terzo degli elettori.
L’indicazione è chiara: l’”offerta politica” riflette gli interessi dei ceti medio-alti. Le proposte, i discorsi, le mosse concrete dei principali partiti – tutti insieme nel governo Draghi, compresa la Meloni che finge di fare l’opposizione – sono viste e sentite come “nemiche”. E non c’è mago della pubblicità che riesca a farle passare per “buone”, “benefiche”, “popolari”.
Il “tradimento” dei Cinque Stelle, che avevano raccolto buona parte di quel malessere e di quella “estraneità sociale alla politica”, ha lasciato senza rappresentanza ampissime fette di società, soprattutto metropolitana. Soprattutto proletaria, per dirla con termine antico ma calzante.
Cristopher Cepernich, sociologo dei media e dei fenomeni politici all’Università degli Studi di Torino, sentito dal Sole24Ore, lo spiega senza mezzi termini: «a votare sono i quartieri benestanti, mentre le periferie hanno disertato le urne. Se dopo il 2013 avevano trovato una rappresentanza nel Movimento 5 Stelle, questa volta non è più stato così e gli elettori hanno preferito non votare».
Partendo da questo primo dato certo, si possono identificare due diversi risultati politici, che insieme descrivono la fine di un ciclo.
Nell’establishment esce vittorioso il “governo Draghi” e inizia la fine del populismo reazionario, alla Salvini-Meloni, per intenderci. Il dato elettorale segue peraltro le indicazioni implicite date con le “inchieste” – più giornalistiche che giudiziarie – degli ultimi giorni.
Per “governo Draghi” va in questo caso inteso quel groviglio di comitati elettorali senza più altro referente che Confindustria e Confcommercio, per qualche ragione ancora non rappattumati in un unico “partito”, anzi meglio due, pronti ad “alternarsi” rispettando le buone maniere.
E proprio questo governo, scriviamo fin dall’inizio, ha tra i suoi compiti principali quello di ridefinire le formule della “rappresentanza politica dell’establishment” (oltre a “riformare” il Paese secondo i dettami ordoliberisti europei).
Le manovre per eleggere il prossimo presidente della Repubblica chiariranno meglio le cordate, i protagonisti, le formule. Ma è già chiaro che “i Salvini” – quelli che solo qualche mese fa, a sinistra e al centro, venivano descritti come il “pericolo principale”, come “il mostro che dovremo tenerci per 20 anni” – sono sul punto d uscire di scena. Dopo soli tre anni, come Renzi...
Il secondo punto certo è l’inconsistenza di una alternativa credibile, come rappresentanza politica popolare, di classe.
Lo spappolamento dei Cinque Stelle, il loro “tradimento” soggettivo (esplicito in gente come Di Maio, Fico, lo stesso Grillo intristito e borbottante – anche lui sonoramente bastonato a suon di inchieste familiari, non a caso) lascia scoperto un fronte enorme che torna ad essere solo spettatore.
“A sinistra”, per quanto ci riguarda, si va completando la dissoluzione di ciò che resta dei partitini residuati dal big bang della Rifondazione bertinottiana.
Ma Potere al Popolo – che pure, come dicevamo domenica, ha esteso in questa campagna elettorale il suo radicamento, nelle città in cui è presente – non è ancora in grado di rappresentare un’alternativa all’altezza delle necessità oggettive. Ossia socialmente credibile, radicata su tutto il territorio nazionale a partire dalle periferie metropolitane, con proposte “forti” e una visione di lungo periodo.
La generosità dei suoi attivisti non può del resto compensare un “profilo politico” ancora incerto su molte questioni che non sono solo di “carattere strategico”, quasi astratto, ma costituiscono la vita quotidiana di decine di milioni di persone.
Su questo, oltre che sul radicamento, bisognerà lavorare seriamente.
Forse l’esempio di Bologna – dove la lista ha raccolto il 2,5%, sfiorando la conquista di un consigliere comunale, raddoppiando i voti rispetto alle regionali di un anno e mezzo fa – potrà aiutare a far crescere questa consapevolezza.
Infine, esce di scena anche la pantomima dell’”unità a sinistra”. In nessuna città – tranne appunto Bologna – una lista abborracciata avrebbe raggiunto l’obbiettivo di “eleggere”. È una constatazione che dovrebbe sollecitare domande sul “come e perché si sta al mondo”, non sul “cosa facciamo alle elezioni”...
Non ci sono alchimie di corridoio che possano sostituire l’internità fisica, sentimentale, organizzativa, con il nostro blocco sociale sotto attacco padronale e multinazionale.
Ci si vede in piazza per lo sciopero generale dell’11 ottobre...
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