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02/01/2012

Danimarca e flexicurity: quello che Ichino e altri non ci raccontano

Ad integrazione di quanto riportato qui, val la pena leggere quanto segue per capire meglio dove andranno a parare, da qui ai prossimi mesi, i capitani coraggiosi che governano l'Italia.

In questo periodo Ichino ed altri stanno tornando a parlare di Flexsecurity e sembra che l’obiettivo principale sia l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Molte critiche sono state scritte in merito, sostanzialmente condivisibili. Ichino ed altri dichiarano di prendere a modello la Danimarca. E scrivono cose che con la Danimarca non hanno niente a che fare.  In Italia il danese non è molto conosciuto, tanto meno la realtà economica e sociale danese, quindi Ichino e a suo tempo Damiano, ma anche esponenti della Lega e del PdL possono dire quello che vogliono.
Ma per chi conosce il danese e la realtà danese, è interessante accettare l‘invito e utilizzare il caso danese per mostrare quanto il mondo che PD, PdL, Lega, UDC e SEL presentano non sia l’unico possibile, neanche all’interno del capitalismo. Se poi addirittura si prospettano soluzioni fuori del capitalismo, ancora meno.

Questo articolo non vuole in nessun modo sostenere che la situazione in Danimarca vada bene come è. Chi scrive, quando viveva a Copenaghen, si schierava con l’opposizione radicale e frequentava Christiania, il più grande centro sociale d’Europa.  Dall’Italia ha sostenuto il Bz-bevægelsen, movimento delle occupazioni, ed ha sostenuto senza riserve la rivolta di Nørrebro del 2007 (http://www.youtube.com/watch?v=V6Mu2jcFubM).

Detto questo, passiamo alla Danimarca.
La Danimarca è nell’Unione Europea ma non ha l’euro, e non è obbligata ad adottarlo. Nell’articolo non si parla di questo, ma quasi nessuna delle soluzioni danesi sarebbe possibile con l’euro.
Prima di arrivare alle fandonie di Ichino, Damiano & c., una breve descrizione della Danimarca per chi non la conosce.
La Danimarca è, dopo il Lussemburgo che è un caso a sé, il paese più ricco come reddito pro capite dell’Unione Europea.  Supera ampiamente la Germania.

I salari minimi danesi sono i più alti al mondo. In Danimarca non esiste una legge sul salario minimo, ma nei fatti, come spiega questo articolo ( http://jp.dk/uknews/business/article1327660.ece), il 50% dei salari USA sono inferiori al salario minimo danese. In Danimarca i salari minimi sono percepiti da immigrati che non parlano danese e che scaricano le balle al mercato. In Italia a guadagnare meno dell’ultimo danese sono più del 70% dei lavoratori.

La Danimarca ha l’indice di Gini più basso a mondo. Circa 0,23. L’indice di Gini misura le disuguaglianze sociali. Un indice di Gini di 1 vorrebbe dire che tutte le risorse di un paese sono in mano a una persona. Uno di 0 vorrebbe dire che i redditi di tutti sono uguali. La Danimarca ha una distribuzione dei redditi più equa della Cina di Mao, dell’Unione Sovietica di Stalin, e del Venezuela di Chavez. Ma non è socialista.
La Danimarca ha lo stesso consumo energetico del 1980, ma ha raddoppiato il PIL. Ha il 40% di energia che viene da fonti rinnovabili, ma ha incentivi energetici pari a un decimo di quelli italiani.
Il tasso di occupazione danese è il più alto al mondo, intorno all’80%.
La Danimarca ha l’avanzo della bilancia commerciale rispetto al PIL più alto al mondo, il 7%, superiore a Cina e Germania.
In Danimarca l’assistenza sanitaria, l’assistenza agli anziani e l’istruzione dalla scuola materna all’università, sono completamente coperte dalla fiscalità generale. Non solo non esistono tasse scolastiche o universitarie, ma la maggior parte degli studenti universitari riceve qualche tipo di sussidio pubblico.

In Danimarca il settore dei servizi pubblici è estremamente ampio. Circa metà dei danesi lavora per qualche ente pubblico. Più del doppio che in Italia.
Come ci riesce?
Secondo Ichino, Damiano & c, perché in Danimarca è facile licenziare.
Non è molto vero. E’ vero che in generale  la grossa impresa licenzia più facilmente in Danimarca che in Italia. Ma sotto i 15 dipendenti è più facile licenziare in Italia che in Danimarca. Ma in effetti i contesti in cui in Danimarca si licenzia sono gli stessi che in Italia. Solo che in Danimarca non esiste la Cassa Integrazione, che in Italia tutti i manuali di economia definiscono un sostegno all’impresa.
In Danimarca le imprese decotte chiudono e i lavoratori ricevono il 95% del salario fino a 4 anni.
Il “segreto” del miracolo danese non sono i licenziamenti, in linea con quelli italiani previsti dall’articolo 18, ma il fatto che le imprese decotte chiudono, e che i loro lavoratori non lottano per tenerle aperte.
Questo probabilmente merita un’ulteriore spiegazione, visto che è molto diverso da come vanno le cose nel Mediterraneo e i vari sostenitori della flexsecurity in salse mediterranee evitano di raccontare.
In Danimarca i sussidi pubblici diretti all’impresa privata sono quasi zero. Il settore pubblico fornisce alle imprese infrastrutture, istruzione dei lavoratori, ricerca, ma non finanziamenti diretti. Come conseguenza le imprese danesi che sopravvivono hanno livelli di valore aggiunto estremamente elevati. E in linea di principio possono permettersi salari elevati, anche grazie al fatto che la manodopera danese è estremamente qualificata. Ovviamente non sono regali. La sindacalizzazione in Danimarca supera l’85%, e i sindacati danesi, molto morbidi politicamente, sono molto combattivi a livello di salario e di condizioni di lavoro.
Ovviamente le imprese che non hanno più un margine di esistenza devono chiudere e licenziare. Questo è molto meno traumatico in Danimarca, dove i lavoratori hanno garantiti fino a 4 anni di disoccupazione al 95%. Mediamente i lavoratori trovano un nuovo impiego entro 3 mesi. Il nuovo impiego non può avere né un reddito né una qualifica inferiore al precedente, né comportare uno spostamento superiore ai 20 km. Questo evita una corsa al ribasso salariale. Esiste l’obbligo per i primi sei mesi di frequentare corsi di formazione, ovviamente gratuiti.
Il sistema può piacere o no. Comunque il principio è di salvaguardare il reddito e la professionalità del lavoratore anziché il posto di lavoro e  l’impresa.
In Danimarca la tassazione reale raggiunge il 48%. Altissima, anche se in Italia raggiunge il 58%. A noi raccontano che la nostra tassazione sia così alta perché il reddito non dichiarato è il 18%. In Danimarca il reddito non dichiarato supera il 23%. La “fedeltà fiscale” dei danesi è un mito italiano. Ma in Danimarca l’elusione fiscale è quasi zero, visto che i redditi da impresa sono tassati come quelli da lavoro. Da noi c’è un altro mondo per gli imprenditori, con tassazioni nominali altissime e in pratica bassissime per la grande impresa.
I prezzi sono in generale molto alti. Le auto sono tassate per oltre il 200%. Come dicono i danesi, compri uno e paghi tre. In compenso i generi di base sono tenuti bassi. Le abitazioni, sia acquistate che in affitto, costano un terzo che in Italia. La tassazione sull’abitazione è vicina allo zero. In più in Danimarca non esistono i notai, quindi non esistono spese notarili. I contratti sono semplicemente depositati in uffici pubblici a costo zero.

Anche i generi alimentari prodotti in Scandinavia sono a basso costo. Questo crea costanti attriti con l’Unione Europea, così come i mutui, garantiti dallo stato e a basso tasso di interesse.
Il sistema previdenziale danese è completamente diverso da quello di quasi qualunque altro paese.
In Danimarca non esistono enti previdenziali e contributi previdenziali.  Erano stati introdotti negli anni ’70, ma fu presto chiaro che il sistema comportava alti costi per i lavoratori a fronte di pensioni bassissime. Contribuì a creare il tracollo dei primi anni ’80, con tassi di interesse sui titoli danesi oltre il 20% e disoccupazione oltre il 15%, e fu abbandonato.
Attualmente esiste una pensione base, grundpension, interamente coperta dalla fiscalità generale statale, fortemente progressiva, quindi pagata dai danesi a reddito elevato. Garantisce una pensione minima uguale per tutti di circa 1.350 euro. La condizione per percepirla è essere stati residenti in Danimarca per 40 anni. Con meno anni si riduce in proporzione. Chi ha lavorato almeno 15 anni riceve una ulteriore integrazione a 1.750 euro. In teoria per questa integrazione si dovrebbe pagare l’1% del reddito, ma da 10 anni questo pagamento non viene richiesto. Se si hanno redditi superiori al triplo della pensione base questa viene ridotta in proporzione. Questo punto cambia nei dettagli con una certa frequenza.
Tutti i contratti di lavoro inoltre prevedono una pensione integrativa, lasciata alla contrattazione sindacale, detassata.
In Danimarca la pensione è a 67 anni. Le donne possono andarci prima, ma non è legato all’essere donna ma ad avere avuto figli. Esiste un istituto tipico danese, l’Efterløn, un prepensionamento che permette di avere una pre-pensione fino a 5 anni prima della pensione regolare. L’istituto è sotto continuo attacco e modifiche sia da governi di destra che di sinistra, quindi è difficile descriverlo nei dettagli. Al momento in sostanza prevede che chi ha lavorato almeno 30 anni possa andare in pensione a 62 anni, percependo circa il 70% della pensione, ma potendo lavorare o come dipendente part time o come lavoratore autonomo, a condizione di non avere un reddito superiore a circa 130.000 euro l'anno. Comunque i dettagli sono estremamente complicati. La maggior parte dei lavoratori danesi che hanno i requisiti per l’ Efterløn lo richiedono.
Esistono due tipi di indennità di disoccupazione. Una è coperta dalla fiscalità generale e prevede come scritto, per chi è licenziato, una copertura del 95% in caso di reddito basso, minore con redditi alti, fino a 4 anni.
Ne esiste un’altra molto importante ma volontaria. Con un pagamento volontario, dipendente dai contratti, ma tra i 12 e i 20 euro mensili, si può estendere la copertura di disoccupazione anche all’auto licenziamento volontario del lavoratore. Questo ha grossi effetti sul tenere i salari danesi su livelli alti. E’ facile per un lavoratore danese abbandonare un datore di lavoro con bassi salari a favore di uno con salari più alti. Effetti sono anche il fatto paradossale e difficile da capire per i lavoratori non danesi che in linea di massima i lavoratori danesi non si oppongono all’outsourcing e alla delocalizzazione. Ma questo meriterebbe un’analisi molto più approfondita.
Anche se non c’entra niente con i fattori economici, la prosperità della Danimarca smentisce anche il mito italiano della necessità di governi stabili e forti. In Danimarca il sistema elettorale è proporzionale puro. L’instabilità politica è altissima. Nel dopoguerra ci sono stati 32 governi, con una durata media di pochi mesi superiore a quella italiana. Si è arrivati a votare 3 volte in uno stesso anno. La possibilità per i governi di ricorrere a decreti è limitatissima. Il potere politico è quindi molto minore che in Italia. Come anche il potere giudiziario. La Corte Suprema danese non può dichiarare l’incostituzionalità delle leggi. Il potere in genere è debole in Danimarca. Ma la prosperità danese è ai massimi mondiali. Forse il mito italiano della necessità dei poteri forti non è affatto ovvia neanche in un contesto capitalista e liberale.
Questa non vuole essere una difesa del sistema danese, pieno anch’esso di ombre. Solo un invito ai vari Ichino di dire tutta la verità su come funziona la flexsecurity. La flexsecurity che ci propongono di security ha realmente poco.

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