Mentre il confronto sulla riforma del lavoro sembra avvitarsi attorno all’articolo 18,
discutiamo della prima fase della trattativa con il sociologo torinese
Marco Revelli. In particolare, ragioniamo del ruolo del sindacato.
Qual è lo stato dei rapporti tra governo Monti e mondo sindacale?
Dai primi passi, la posizione del governo rappresenta un neoliberismo integrale: il lavoro è una variabile dipendente
dal quadro finanziario globale. Anche questo governo esprime il senso
comune che misura l’affidabilità dei Paesi in base alla debolezza del
mondo del lavoro.
La trattativa sulla riforma del lavoro si è aperta
con questi presupposti e non può che esserne condizionata: il governo
di fatto vuole fare da sé e non esiste trattativa vera. In questo ha
ragione la Camusso.
Cisl e Uil negli ultimi anni hanno dimostrato
un’arrendevolezza totale sia al governo Berlusconi – basti ricordare il
sodalizio di fatto con il ministro Sacconi – sia all’ala dura del mondo
imprenditoriale, ben rappresentata da Marchionne, fatto che poi conduce
direttamente all’accordo Fiat. Forse sono convinti di una “subalternità
necessaria” per via delle condizioni oggettive dell’economia e del
lavoro. Sta di fatto che resta solo la posizione d’orgoglio della Cgil
e, soprattutto della Fiom. Con tutte le difficoltà del caso, anche
interne alla Cgil stessa, che però rimane l’unico soggetto sindacale che
fa il proprio mestiere: negoziare.
Rispetto al governo precedente,
nell’esecutivo di Monti c’è una discontinuità di stile. Prima si puntava
agli accordi sotto banco e non c’era trasparenza. Questo è invece un
governo esplicitamente liberista che rende chiaro il rapporto
capitale-lavoro. Per cui ci sarebbero le condizioni per un vero
conflitto. Il lavoro può finalmente confrontarsi con il liberismo di
mercato e non con la corte dei miracoli di prima.
L’altra novità
consiste nel fatto che mentre il governo precedente non era credibile
neanche per i mercati, questo lo è. Probabilmente è questo il motivo per
cui ci siamo salvati dal default.
Perché l’articolo 18 sembra così importante?
L’articolo 18 è un simbolo. In realtà conta abbastanza poco dal punto
di vista della crescita e della creazione di occupazione. Quello che
importa, invece, è la totale liberalizzazione del mercato del lavoro.
Così il Paese diventa più affidabile e lo spread può scendere, senza
nessun nesso con l’economia reale ma nel quadro di vincoli finanziari,
non politici.
Vogliono dimostrare che in Italia c’è il potere
discrezionale assoluto del datore di lavoro. La creazione di più posti
di lavoro non c’entra niente, anche perché con i contratti di
apprendistato le imprese potrebbero tranquillamente assumere gente senza
le tutele dell’articolo 18. La realtà è che se non si assume è perché
non c’è domanda.
Come cambierà il ruolo del sindacato se
si andrà verso la fine della concertazione e del contratto unico,
rendendo sempre più frequenti gli accordi separati?
Gli
accordi separati sono devastanti, non solo per il sindacato ma anche per
la società, che è già frammentata. Qui si va verso un’ulteriore
frammentazione del mondo del lavoro e questo dovrebbe capirlo anche
l’impresa, perché a questo punto diventa difficile la governabilità dei
processi. Ho l’impressione che le stesse oligarchie che lavorano a
questo scenario non se ne rendano bene conto.
Fonte.
Al solito gli opinionisti sono sempre troppo teneri coi sindacati, quanto al salvataggio dell'Italia dalla bancarotta, io aspetterei ancora qualche mese prima di cantar vittoria.
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