Ogni volta che in questo paese il livello della conflittualità sociale
cresce, fino a limiti che le istituzioni ritengono ingovernabili, non
più incanalabili secondo un’ortopedia social-democratica del dissenso,
la “questione femminile” viene strumentalmente agitata come una
bandiera. Si tirano fuori da un cassetto chiuso a chiave “le donne”, si
dà una sommaria spolverata alla categoria e improvvisamente ci si
ricorda di loro, tentando di piegarle a svariati usi.
Come testa
di turco per far cadere i governi ad esempio: la recente esperienza di
Se Non Ora Quando è un caso eclatante e deprimente della
strumentalizzazione di questioni che il femminismo radicale ha sempre
preso sul serio ( la mercificazione dei corpi e della loro immagine, per
esempio), volgarizzate e distorte, infine trasformate in un bolo
inoffensivo e più digeribile per un’opinione pubblica ormai consumata
dal suo quotidiano consumare i media. Istanze ormai rese
irriconoscibili e prive di alcun riferimento pratico e teorico al
femminismo radicale. Non a caso spuntava, nei cortei orchestrati da
donne embedded della buona borghesia illuminata (giornaliste,
intellettuali, scrittrici, registe, attrici e cantanti), l’odiosa
distinzione, da sempre bersaglio delle femministe, tra donne per bene e
donne per male, puttane – le presunte odalische del Gran Sultano di
Arcore – e sante del XXI secolo (le lavoriste indefesse che si sono
“fatte da sole”). Può esserci un tradimento più grande e imperdonabile
delle istanze femministe? No.O meglio, ce n’è uno che del primo è
l’altra faccia, il risvolto, l’ombra complementare. Entrambi si fondano
sul medesimo presupposto: strumentalizzare, incanalare il dissenso e la
conflittualità secondo forme neutrali e di fatto inoffensive. Anche a
costo di compiere, sempre e di nuovo, un altro tradimento, storico,
culturale, sociale. E qui arriviamo all’articolo di Sapegno sulle “donne
della ValSusa” tradite…già, ma tradite da chi? L’articolo citato è una
specie di volgare prosopografia: una serie di “medaglioni”, di figure di
donne tipizzate in un senso molto specifico.
Tali medaglioni
hanno la funzione, di fatto, di ridurre la complessità delle differenze
individuali e collettive del “femminile” e di astrarne,
universalizzandole, alcune, che perdono poi ogni carattere di
“differenza”. E diventano “pseudo-differenze”. Andiamo per gradi.Da un
lato ci sono le donne vecchie. Per il giornalista, (d’altronde non solo
in quanto tale è un agente della mediatizzazione totale dei corpi, ma in
più scrive su una testata per donne, dove articoli che ambiscono ad
essere serie analisi socio-culturali si mescolano alle foto di moda e
alle pubblicità degli anti-rughe) – è evidente dalla descrizione - le
vecchie hanno perso, come prescrive il buon senso comune, ogni
attrattiva sessuale. La menopausa le rende pacifiste de jure….Capelli
grigi, stampella, gote rubiconde, sguardi bonari sotto rassicuranti e
nonnesche palpebre cadenti. Maglioncini sformati e comodi. Alle vecchie,
private di un corpo libidinale che d’altronde poco si presta alla
spettacolarizzazione, resta pur sempre un corpo sociale cui si associano
funzioni precise: possono arringare la folla come madri appena un poco
incazzate (attenzione, non troppo perchè l’età le ha rese sagge),
preparare qualche the caldo, trasmettere i saperi femminei dell’arte
culinaria. Vengono dunque ben assicurate al livello che chiamerei del
grand-maternage: rassicurazione e supervisione del lavoro “costruttivo”
di cura svolto dalle giovani. Il livello di chi ha perso la capacità
biologica di procreare. Poi ci sono le filles. Poichè dotate di quella
capacità, a loro è assegnato invece il livello del maternage vero e
proprio: loro si occupano di bambini, mentre i maschi discutono le
strategie della lotta. Improvvisano asili volanti nelle piazze durante
le manifestazioni, procurano giochi. Di mestiere, meglio ancora se fanno
qualcosa di attinente, come la psicologa infantile.
Insomma, si
occupano di quel lavoro di cura dal quale spesso nemmeno la
partecipazione ad una lotta popolare e quotidiana come quella contro il
TAV riesce ad esentarle. A seguire la genealogia di Sapegno, dal
(grand) maternage non ci si emancipa mai, anzi costituisce il proprio,
l’essenza ineludibile della femminilità sana. Non ci sono donne non
pacifiche. Le violente rappresentano un’anomalia del genere, un errore
della specie. Qualcosa di cui il giornalista, più che renderlo oggetto
di condanna morale, si stupisce. Perchè per essenza la donna è legata
alla Vita, e dunque non le sarebbero propri istinti distruttivi. Non
sono, non devono essere necessarie troppe parole per smontare queste
tesi obsolete e mistificanti. Le donne hanno un forte rapporto con la
violenza e il conflitto. Da tempi immemori, se al confine storico e
geografico tra Oriente e Occidente si situa il mito delle Amazzoni, la
popolazione scita di sole donne che, per cavalcare e reggere l’arco in
spalla più agevolmente, si mozzavano un seno ( da qui l’etimologia del
nome in Erodoto, a- mastòs: senza seno). Erano bellicose, a volte
violente, talora sanguinarie.
Anche la storia del femminismo in
Occidente, per venire a tempi più recenti, sebbene lavata dal sangue da
una storiografia maschile, è costellata di una violenza per nulla
occasionale. Nei primi decenni del XX secolo le suffragette bruciavano
case, spaccavano vetrine di negozi , assalivano fisicamente i membri del
Parlamento, piazzavano ordigni esplosivi, facevano saltare per aria le
cassette postali e tagliavano i fili del telegrafo. Spesso tali azioni
“non democratiche” erano represse violentemente dallo Stato: erano
incarcerate, sottoposte ad alimentazione forzata, picchiate. Il
Parlamento degli Stati Uniti aveva persino emanato una legge speciale,
detta Cat-and-Mouse, perchè le si potesse imprigionare sempre e
comunque. I prodromi del femminismo sono perciò profondamente
contrassegnati dalla violenza: la violenza rivoluzionaria delle
suffragette da un lato, quella di Stato dall’altro. Il fatto che la
parola stessa “suffragetta” sia diventata, per l’uso comune, sinonimo di
crocerossina appena un poco adirata, associata all’immagine di gentili
fanciulle con abiti ingombranti che discutono di voto tra un the e un
pasticcino, per hobby, annoiate da un pallido menage borghese, con un
tradimento totale dei fatti storici, è indicativo di quanto la mentalità
di cui anche Sapegno è erede sia ancora profondamente radicata.
Semplicemente si nega la realtà, si cancella la violenza e così facendo
si neutralizza la femminilità, così come si è neutralizzato e, nello
stesso movimento, mascolinizzato, il linguaggio. Ovviamente la violenza e
la conflittualità, endogena e esogena, esogenerica e intragenerica, ha
radici, ragioni, forme e manifestazioni differenti. L’iscrizione nel
genere e nella classe, l’appartenenza ad un’epoca storica, ad una
congiuntura sociale e geografica ne moltiplicano le differenziazioni, e
l’argomento meriterebbe studi ed analisi approfonditi, ancora carenti
proprio anche perchè si è sempre privilegiata un’immagine femminile
neutrale che ha profondamente lavorato, a livello culturale, per
l’assoggettamento della donna nelle società patriarcali e per la
produzione di corpi femminili in quanto corpi docili. I discorsi
occidentali sulla femminilità non sono serviti che a privatizzare la
donna, assegnandola alla famiglia come sfera separata dal sociale, campo
di battaglie e rivoluzioni, teatro violento riservato al maschio.
Persino a livello simbolico la psicanalisi ha descritto la donna, per
decenni, in termini di mancanza. Mancanza di fallo, invidia del pene,
fantasiose storie sulla castrazione. Ma la castrazione – come hanno
mostrato chiaramente Deleuze e Guattari, non è che questo taglio con cui
il privato è stato tagliato via e fuori dal sociale, la riduzione
psicologistica del politico, la trasformazione del desiderio da realtà
capace di generare mondi in fantasma improduttivo.
Sappiamo
dunque bene di cosa è erede la posizione di Sapegno. Ha una storia lunga
come l’assoggettamento delle donne. Ma, poichè alla fin fine si tratta
di donne, non è nemmeno il caso di farla troppo lunga: vengono tirate in
ballo non per discutere il merito della questione (le ragioni della
lotta NO TAV) quanto piuttosto per dissertare di effetti collaterali, di
argomenti paralleli e residuali sulle modalità della lotta. Pacifiche o
violente. E solo in modo strumentale, utilizzate per contribuire alla
criminalizzazione del dissenso ormai da tempo in atto. Come cartine al
tornasole per testare il grado di democraticità del movimento. Per
confermare un altro tradimento storico: una volta usciti da regimi
autoritari, monarchici o dittatoriali, entrate nel meraviglioso empireo
democratico, nessun dissenso di fatto sarebbe più possibile, a meno,
appunto, di esprimersi in modi “democratici”. E’ invece profondamente
connaturata alle democrazie, la possibilità del tumulto. Storicamente,
anzi, si dimentica, lo ricordava Illuminati pochi giorni fa, la
produttività sul piano legislativo dei tumulti nella Roma repubblicana.
Ma anche sorvolando su queste raffinatezze storiografiche, la liturgia
democratica elude una questione fondamentale (sarà per questo che la
immaginano femmina, la democrazia?): che ogni Stato nasce requisendo le
giustizie particolari e le violenze individuali per dar vita ad un
monopolio della violenza sul quale si fonda la sua stessa possibilità di
esistere. La natura dello Stato è violenta perchè lo è la sua origine.
Ogni volta che sorge esso deve proteggere il proprio monopolio: quindi
le conflittualità e il dissenso dal basso che non si esprimono
attraverso rappresentanti istituzionali, o non solo, come nel caso del
movimento NO TAV, vengono bollati come anti-democratici. Extra-statuali,
che poi significa eversivi, altro termine che sui giornali ricorre
spesso negli ultimi tempi come rischio concreto e attualissimo. Questi
discorsi lavorano sempre su almeno due livelli: da un lato,
profondamente, tendono a cancellare, culturalmente, la memoria e la
percezione che lo Stato è violento dalle sue origini; infatti può, in
quanto monopolista della forza, porre l’assolutezza delle leggi e poi
sospenderle, nello stato di emergenza o di eccezione, con atti
letteralmente illegali cioè contro le sue stesse leggi, cui conferisce
però “forza di legge”, come negli Act del Parlamento USA post-11
Settembre, o come nella recente arbitraria trasformazione dell’area
dello pseudo cantiere in sito di “interesse strategico”.
Dall’altro,
ad un livello più quotidiano, servono a far dimenticare il quid delle
lotte, ad allontanare i sospetti che certe decisioni invece che per
l’interesse delle popolazioni siano prese in nome di interessi
lobbistici e privati.Ma proprio noi, in quanto donne, conosciamo bene i
meccanismi di rimozione culturale, sociale e politica, le castrazioni
storiche con cui il Potere si perpetua, a prescindere dal tipo di
governamentalità con cui, in ogni epoca, si caratterizza. Separazione
dei ruoli, divisione del lavoro, incatenamento a questa o quell’essenza.
Stranier*/autocton* (valsusin*). Santa/puttana. Cuoca/ guerrigliera. E
se fossimo tutto?
Fonte.
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