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02/04/2014

I redditi in Italia e la redistribuzione delle briciole


Un interessante articolo apparso il 26 marzo su Repubblica, riporta una ricerca del Ministero dell'economia sui redditi dei contribuenti nel nostro paese.

Il quotidiano con molta enfasi, quasi con sorpresa, sottolinea che a fronte di un reddito complessivo di 800 miliardi di euro, il 22,7% di questa somma è detenuta dal 5% dei contribuenti, "ossia una quota maggiore a quella detenuta complessivamente dalla metà dei contribuenti con i redditi più bassi", riporta la relazione del Ministero. Il reddito medio invece, si attesta sui 19.750 euro, sottraendo le detrazioni relative all'imposta Irpef si scende a 14.870, questo significa che il salario medio in Italia non supera i 1.240 euro al mese.

Questi pochi, ma significativi cenni, ci consegnano la fotografia degli effetti di una crisi economica che colpisce esclusivamente le fasce più deboli della popolazione, mentre c'è una polarizzazione dei redditi su una fetta esigua che detiene la stragrande maggioranza della ricchezza.

Politici e istituzioni di ogni genere pur di legittimare le politiche da lacrime e sangue che vengono adottate, hanno ripetuto come un mantra la necessità di fare sacrifici data la scarsezza di risorse economiche per via di una crisi che colpisce tutti. Invece, come ripetiamo da anni, i soldi ci sono e sono concentrati su una fetta piccolissima della popolazione. Questa crisi non è altro che un'occasione per alcuni per arricchirsi sempre di più, condannando la stragrande maggioranza della popolazione ad una vita di sacrifici sotto il ricatto del debito pubblico.

Questi dati non ci sorprendono in alcun modo, visto che dalla fine dagli anni Settanta il nostro paese ha sempre avversato qualsiasi idea di politica redistributiva. Basta pensare agli attacchi che gli ultimi Governi hanno portato al contratto collettivo nazionale di lavoro, uno dei pochi strumenti giuridici in grado di concorrere a redistribuire in qualche misura il reddito. A ciò bisogna aggiungere altri fattori, come le politiche fiscali: l'Italia è l'unico paese in cui il salario viene tassato con un'aliquota iniziale del 23%, mentre i guadagni da capitale sono stati stati tassati fino al 2011 al 12,5% e solo dal 2011 in poi al 20%. Inoltre, se alla fine degli anni Ottanta le entrate Irpef da lavoro dipendente costituivano il 40% delle entrate totali, attualmente sono salite al 60%. Non saranno gli 80 euro in più in busta paga che Renzi ha promesso da maggio ad invertire questa tendenza. L’ennesimo siluro mediatico-elettorale dell'uomo solo al comando non è altro che un anestetico di breve periodo per ridurre leggermente l’avanzata inesorabile dell’euro-scetticismo alle prossime Europee.

Questa diseguaglianza, non viene considerata come effetto collaterale della crisi, come problema da risolvere, inaccettabile condizione che incide sulla condizione di milioni di persone, ma viene legittimata secondo un preciso principio neo-liberalista. Infatti in base a vaghi principi che si rifanno al maggior talento, impegno profuso ecc, la diseguaglianza diventa equa, grazie a criteri meritocratici che si rifanno al concetto utopistico di derivazione americana del self-made man.

Scorrendo l'articolo, risulta interessante e quantomeno ambiguo, il reddito dichiarato dagli imprenditori, pari a 17.470€. Tuttavia, il Ministero ci tiene a sottolineare che la definizione "imprenditori", "non riguarda i titolari di società quanto piuttosto quelli di ditte individuali e che non hanno necessariamente dipendenti". Facendo uno sforzo di immaginazione, collegandola alla definizione data dal Ministero, potremmo pensare come imprenditori, quella miriade di partite iva, lavoratori autonomi e freelance esclusi oltretutto anche dai famosi 80 euro. I media mainstream, negli anni, hanno definito queste figure lavorative come dei "capitalisti personali"...

Si tratta dell'operazione ideologica portata avanti negli ultimi 25 anni, per cui sulla base dell'idea della costruzione di una società della conoscenza, singoli individui, detentori di "capitale intellettuale", possono divenire "imprenditori di sé". Nel mondo reale invece sono individui che vivono forme di sfruttamento feroci, relegati in una condizione di isolamento, molto spesso confinati nell'"eremo" della propria casa-ufficio, protagonisti di una vera e propria "guerra tra poveri" che li porta ad abbassare fino all'inverosimile le proprie pretese retributive e che vivono un'autonomia lavorativa soltanto apparente, dato che a dettare i ritmi di lavoro sono le aziende per le quali svolgono prestazioni.

Negli Stati Uniti come nell'Unione europea, la crisi ha consolidato un'ideologia che vede nell'insicurezza socio-economica, dovuta ad un accumulazione dei redditi verso l'alto, non solo un aspetto accettabile della società e della vita produttiva, ma addirittura un fattore di sviluppo, in grado di indurre le persone a lavorare di più e più rapidamente. Il quadro è rafforzato da un continuo smantellamento dello stato sociale, che non è più in grado di garantire politiche sociali di qualità a prescindere dal reddito, come accadeva in parte fino a vent'anni fa.

Dell'idea di modello sociale europeo, in cui i membri di una società si impegnano collettivamente per garantire a ciascuno un'esistenza serena e dignitosa, non rimane alcuna traccia. Questo modello è stato tanto decantato dai vari Trattati quanto mai realizzato. Anziché avanzare verso la costruzione di un welfare europeo, la tendenza è quella di smantellare quel po' che resta del welfare-state nei vari stati europei in nome del pagamento del debito. Allora al siluro di Renzi che redistribuisce briciole per elemosinare un po’ di consenso elettorale dobbiamo rispondere con la mobilitazione per un redistribuzione radicale di ricchezza e reddito. La May Day del Primo Maggio a Milano sarà un ottimo appuntamento per ricordare anche a questo governo quali sono le vere priorità.

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