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05/12/2016

#Ciaone


Non coglieremmo il senso di questo referendum se restringessimo la visuale su Renzi o la Costituzione. A dispetto dell’ideologia tecnocratica che vorrebbe disattivare il significato politico dei processi rappresentativi – elettorali o meno – ogni elezione è un’elezione politica, nel suo senso più profondo e generale. Ogni scontro particolare racchiude una frattura fra una sinistra e una destra, fra una visione del mondo e un’altra. La sconfitta del management renziano piddista non è (solo) una battuta d’arresto nel processo di revisione istituzionale del paese, ma l’ennesimo atto di rifiuto popolare verso il potere liberista, qualsiasi forma questo prenda e sotto qualsiasi veste questo si presenti. La vittoria del No è allora in scia del No al referendum greco del 2015; della vittoria della Brexit la scorsa estate; della vittoria di Trump il mese scorso. E, più in generale, dell’affermazione dei populismi di destra, come il Front National in Francia; di “centro”, come il M5S in Italia; o di “sinistra”, come Podemos in Spagna o il temporaneo successo di Bernie Sanders negli Usa. E’ un mondo della rappresentanza e delle istanze della politica che si sta trasformando davanti ai nostri occhi, lasciando la sinistra sempre più spaesata, succube di riferimenti politici ormai completamente disattivati. E’ la forza delle masse che hanno reciso ogni forma “ordinaria” della partecipazione politica, che si esprimono a volte non votando, altre mandando un segnale dirompente di rifiuto dell’establishment politico-economico, qualsiasi forma questo prenda, di destra o di “centrosinistra”.

Chiaramente, il fronte del No compattava un’accozzaglia (è proprio il caso di dirlo) politica che definire eterogenea è poco. Ma il dato centrale su cui andrebbe aperta una riflessione (e che alcuni iniziano a fare, come Carlo Formenti ma non solo), è che l’accozzaglia politica del fronte del No non ha determinato l’orientamento elettorale della popolazione, ma si è accodata ad un sentimento di rifiuto popolare verso le istituzioni, i loro rappresentanti, i loro referenti economici e burocratici tanto nazionali quanto europeisti. Partiti e movimenti politici non hanno niente da proporre a questo sentimento popolare, se non tentare di volta in volta d’intestarsi una vittoria che però non ha rappresentanze politiche adeguate. E’ il tempo, oggi più che mai, di lavorare dentro questo sentimento popolare, che è un sentimento di classe e non solo, che somma ragioni progressive e regressive, ma che andrebbe sfruttato per quello che può produrre: una rottura, forse ambivalente, con lo status quo liberista. Fuori da questa ambivalenza c’è il consolidamento ordoliberale, non altro. Eppure siamo ben lontani ancora dall’apprendere questo semplice principio di realtà che disfa materialmente le convinzioni ideologiche di tanta sinistra. Mentre la storia, quella materiale, fatta di rapporti di forza e contraddizioni di classe, sfila sotto gli occhi di pensosi analisti della politica persi per le campagne inglesi a chiedere l’età dei votanti della middle class reazionaria, contenti di aver scoperto che dietro Farage o Trump non c’è il socialismo, il “populismo”, nelle sue varie forme, correnti e dimensioni, s’intesta le ragioni dell’opposizione al liberismo europeista e campa di rendita per manifesta inferiorità dei potenziali contendenti politici. L’importante però è fare luce su Trump che in realtà non è un comunista sotto mentite spoglie, o scoprire che un No al referendum non conduce automaticamente alla rivoluzione.

Non è stato un voto in difesa della Costituzione. Laddove questo mito resiste, come in Toscana o in Emilia Romagna, ha vinto il Si, non a caso. E’ stata una mobilitazione di massa contro il Pd. Sarebbe stato uguale se al governo ci fosse stata Forza Italia però, perché il nodo non è questo o quel soggetto politico, ma il campo che questi soggetti, tutti insieme, rappresentano: il campo del liberismo europeista, dunque il campo della nemicità popolare. Oggi, giorno in cui il dato è davvero lampante, c’è un baratro davanti a noi: o stiamo dalla parte del “popolo” – nelle sue contraddittorie, multiformi e ambivalenti forme – o stiamo dalla parte delle élite sociali, politiche, culturali e finanziarie. Tertium non datur. Non è roba per palati fini: è la politica.

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