di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Due generali, due
colonnelli, un maggiore, tre capitani, due agenti: le cariche dei dieci
membri del dipartimento per le attività sindacali e le organizzazioni
politiche illegali della National Security egiziana coinvolti nel caso
Regeni non sono superabili dalla narrativa delle mele marce e del caso
isolato, cara al regime di al-Sisi.
Le rivelazioni della Procura di Roma sulla nuova rogatoria
inviata al procuratore generale Sadek smontano – una volta di più –
l’impalcatura di depistaggi che dal 3 febbraio 2016, giorno del
ritrovamento del corpo martoriato di Giulio, Il Cairo ha sapientemente
costruito.
Sapientemente perché, seppur palesemente fasulla, quell’impalcatura
permette al presidente golpista di non venir sporcato a livello
internazionale dalle pratiche brutali della macchina della repressione
interna. Lo si vede ogni giorno, in un climax di legittimazione occidentale del regime che mortifica le aspirazioni democratiche e egualitarie del popolo egiziano.
Eppure il caso Regeni (la terribile sorte di uno straniero che
illumina quella identica di migliaia di egiziani) nega alla base tale
legittimazione. Nella rogatoria il team di Piazzale Clodio è
chiarissimo: chiede i verbali dei dieci soggetti coinvolti nella
sparizione, la morte e la successiva catena di insabbiamenti, non
soggetti qualsiasi ma ingranaggi centrali dei servizi segreti che fanno
capo al Cairo.
«Questo ufficio – si legge – ritiene che Giulio Regeni sia stato
oggetto di accertamenti, per un non breve periodo, ad opera di ufficiali
degli apparati di sicurezza egiziani. Questi ultimi, nel ricostruire le
indagini effettuate, hanno riferito, tra molte reticenze, fatti non
conformi al vero e ciò sia in ordine ai tempi e ai modi dell’attività
svolta a gennaio 2016, sia in ordine alla perquisizione del 24 marzo
2016 che portò al ritrovamento dei documenti di Giulio Regeni».
Hanno mentito, depistato: la Procura di Roma fa quello che il governo
italiano non fa, abbandonando il lessico imbellettato della diplomazia.
Aggiungendo un elemento importante: quei soggetti hanno usato
un luogo compatibile con le torture subite da Giulio («professionisti
della tortura», li definì la madre Paola Deffendi) per almeno una
settimana e – se davvero si fosse trattato di “mele marce” – lontano da
occhi indiscreti. Quasi una domanda retorica che, insieme all’uccisione di cinque egiziani, svela di per sé la pochezza della teoria dei lupi solitari.
Nel mirino della Procura torna infatti anche la sparatoria, come la
definì la polizia egiziana, in cui morirono cinque egiziani accusati di
aver assassinato Giulio. Innocenti, vittime di esecuzioni a sangue
freddo con colpi sparati alla testa e i corpi messi nei sedili del
minivan. Per quelle morti il procuratore del Cairo sta indagando
due poliziotti. Ma è ovvio che non si è trattato dell’azione solitaria
di due agenti.
E la Procura di Roma lo spiega: fu un colonnello a collocare i
documenti di Giulio in casa di una delle vittime, lo stesso che contattò
il generale e il capitano del Dipartimento che avevano registrato la
denuncia del capo del sindacato ambulanti Abdallah e con lui avevano
intessuto relazioni dirette (Abdallah ripete che fu uno di loro a
consegnargli la videocamera con cui filmò Regeni il 6 gennaio).
Nelle stesse ore parlava il ministro degli Esteri egiziano Shoukry: in un’intervista alla tv egiziana Dmc,
ha detto che la morte di Giulio e il mancato ritorno dell’ambasciatore
italiano al Cairo «gettano un’ombra sui legami bilaterali» tra i due
paesi. E aggiunge: «Abbiamo dimostrato una trasparenza senza precedenti
nella collaborazione degli organi giudiziari con la controparte
italiana. Abbiamo accettato di essere così aperti in via eccezionale, data la natura storica dei legami con l’Italia».
Apertura e trasparenza visibili solo a Shoukry che, in ogni caso, ha optato per una misura identica nei confronti di Roma: l’ambasciatore
Badr non si insedierà in Italia – dice il segretario della Commissione
parlamentare agli Esteri, Tarek al-Kholi, ad Agenzia Nova – fino a quando quello italiano non tornerà in Egitto.
Il mare magnum di bugie non bagna l’Occidente. Le istituzioni
italiane non ne parlano, quelle internazionali corrono alla corte di
al-Sisi. Ieri è giunto l’ultimo riconoscimento in ordine di tempo. Con un decreto presidenziale al-Sisi ha approvato la creazione di una missione diplomatica permanente alla Nato.
Non una partnership vera e propria, ma un innalzamento consistente
del livello dei rapporti con il Patto Atlantico: Il Cairo avrà un suo
ufficio permanente di rappresentanza, come Israele e la Russia. Due
giorni fa era stato il segretario Stoltenberg a lodare l’iniziativa:
«Rafforzerà la cooperazione e il partenariato tra Nato e Egitto».
Una misura (probabilmente definita una settimana fa quando il
generale Pavel, capo del Comando Militare Nato, ha fatto visita
all’esercito egiziano e quindici giorni fa quando Shoukry è stato
ricevuto da Stoltenberg a Bruxelles) che si inserisce all’interno di un
legame ventennale, quello del Dialogo Mediterraneo di cui Il Cairo fa
parte con Israele, Giordania, Tunisia, Algeria, Mauritania e Marocco.
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