di Stefano Mauro
Libano, Iraq e Turchia. In
poche settimane una lunga tornata elettorale rischia di scuotere gli
equilibri, sempre precari, del Medio Oriente.
Il prossimo 6 maggio sarà il turno del Libano che, dopo quasi dieci anni, voterà per il rinnovamento del parlamento. Dal
2009, infatti, il paese dei cedri non vede rinnovare i propri 128
parlamentari a causa della crisi in Siria e dello stallo politico tra
i due avversi schieramenti: il movimento “8 marzo” costituito dagli
sciiti di Hezbollah e Amal oltre che dai maroniti della Corrente
Patriottica Libanese (CPL) dell’attuale presidente della repubblica, Michel Aoun, contrapposti
al “14 Marzo” formato dai sunniti dell’attuale primo ministro Saad
Hariri ed alleato dei maroniti delle Forze Libanesi di Samir Geagea – accusato per le stragi di Sabra e Chatila – e delle falangi di Sami Gemayel.
Per la prima volta si voterà con la nuova legge elettorale,
approvata nel 2017, con un sistema proporzionale puro al posto del
maggioritario, con la divisione del territorio libanese in 15
collegi elettorali, relativamente omogenei dal punto di vista
confessionale, e con uno sbarramento del 10%. Una legge elettorale che
andrà ad integrare le suddivisioni confessionali per l’elezione dei
rappresentanti politici di tutte le confessioni ed etnie presenti in
Libano. Un criterio, quello confessionale, retaggio del colonialismo francese, e sempre
più avverso alla popolazione libanese per due motivi. Il primo è legato
al sempre più elevato e crescente problema della corruzione e del
clientelismo all’interno di ogni singola confessione, diventato
sempre più problematico in termini di sprechi e disagi per tutti quegli
aspetti legati alla quotidianità dei libanesi: dalle proteste per
l’inefficienza nello smaltimento dei rifiuti fino a quelli per acqua
potabile ed energia elettrica. Il secondo, invece, è legato
principalmente al fatto che le quote e le suddivisioni etniche e
confessionali non corrispondono più all’attuale situazione demografica
del paese, visto che fanno riferimento all’inizio del secolo
scorso, e non rispecchiano più gli attuali equilibri all’interno delle
diverse comunità.
Tutti i maggiori esponenti politici sono impegnati in quest’ultimo periodo in una serrata campagna elettorale. I principali argomenti riguardano le problematiche interne: la corruzione, il miglioramento del sistema produttivo ed economico per contrastare l’alto tasso di disoccupazione e la riforma del welfare nazionale, messo in crisi dagli oltre 900mila profughi siriani nel paese. Altrettanto importanti e fondamentali i temi riguardanti la politica estera:
dal vicino conflitto siriano alle continue pressioni di nazioni esterne
(Iran, Arabia Saudita e Francia) nelle dinamiche nazionali, dallo
sfruttamento dei giacimenti petroliferi, al largo delle coste libanesi, alle costanti provocazioni e sconfinamenti dello spazio – aereo, terrestre e navale – da parte di Israele con un continuo innalzamento della tensione ed il rischio di un ormai prossimo conflitto.
Su questi temi emergono le divisioni politiche tra i differenti schieramenti. Da una parte Hezbollah vero favorito insieme al partito Amal.
Il partito sciita ed il suo segretario generale, Hassan Nasrallah,
hanno dimostrato in questi anni di essere diventati i principali fautori
della “pax libanese” e del dialogo interconfessionale che ha portato
allo sblocco dello stallo politico, all’elezione del presidente maronita
Michel Aoun, principale alleato degli sciiti, ed a quella di Saad
Hariri come primo ministro. Nasrallah ha incentrato la campagna elettorale, con i quotidiani comizi di questi ultimi giorni, soprattutto riguardo alla lotta contro la corruzione: obiettivo trasversale gradito a tutta la popolazione libanese. L’altro punto di forza del partito sciita è quello di essere visto, anche in questo caso trasversalmente tra le diverse confessioni libanesi, come
una reale risorsa difensiva nazionale capace di allontanare
definitivamente dal paese la minaccia jihadista di Daesh e Al Nusra (battaglia del Qalamoun) e di tener testa anche alla possibile e sempre più concreta minaccia militare rappresentata da Israele.
Dall’altra parte il partito Mustaqbal di Saad Hariri, finanziato dai petro-dollari sauditi del principe Mohammed Bin Salman, sembra aver perso parte del suo consenso nella stessa comunità sunnita.
Le pressioni saudite, pur di spingere Hariri a schierarsi e ad opporsi
in qualsiasi maniera ad Hezbollah, portarono al suo arresto a Riyadh ed
alle sue dimissioni da primo ministro, poi ritirate al suo rientro in
Libano. Wafi Ibrahim, esperto libanese di questioni strategiche ha
recentemente affermato su Al Manar che “l’Arabia
Saudita, sconfitta su più fronti in Yemen, Siria e Iraq, tenta ancora di
dividere il popolo libanese e di spingerlo alla guerra civile pur di
contrastare l’asse della Resistenza rappresentato da Hezbollah, Siria,
Iran e Russia”.
Affermazioni confermate dal quotidiano statunitense The New Yorker
in un servizio di Dexter Filkins nel quale si raccontano i retroscena
del rapimento di Saad Hariri, lo scorso novembre, ed i legami tra
Mohammed Bin Salman e Jared Kouchner, consigliere e genero del
presidente Trump. Accordi che lasciano a Tel Aviv, come sta recentemente avvenendo, la libertà di potersi muovere in maniera indisturbata in tutta l’area, bombardando la Siria o provocando una escalation contro Hezbollah in Libano, pur di colpire il nemico numero uno di quest’ultimo periodo: l’Iran.
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