03/10/2018
Fuori legge
L’arresto del sindaco di Riace, Mimmo Lucano, può rivelarsi una spada “che divide il bene dal male”, ovvero un episodio emblematico capace di segnare un confine sul piano della politica, dell’etica, della convivenza tra regole e valori generali di una società.
C’è un magistrato che ha ritenuto illegale l’operato di un sindaco teso a favorire l’integrazione degli immigrati arrivati nel nostro paese, in una comunità locale altrimenti condannata allo spopolamento, e di dare soluzioni concrete ai problemi che questo può come sempre creare.
Ma la la volontà di risolvere i problemi si è scontrata con un duplice apparato legislativo determinato da un sistema di governance multilivello, che parte dall’alto e arriva fino al più piccolo dei municipi.
Sul piano strettamente economico-finanziario, ci sono gli obblighi derivanti dal vincolo al pareggio di bilancio, ovvero dal “patto di stabilità” che ogni amministrazione – centrale o locale – è tenuta a rispettare. Ordini che vengono da Bruxelles, ma debbono essere applicati fino all’ultimo sperduto paese del Mezzogiorno. Dunque anche a Riace. E’ un dispositivo che, unito alla riduzione delle erogazioni dello Stato centrale agli enti locali, ha contribuito a mandare a gambe all’aria parecchie amministrazioni comunali (anche a prescindere dalle scelte politiche o dalla competenza tecnica degli eletti), costringendole a tagliare in primo luogo i servizi sociali (asili nido, mense, trasporti, assistenza sociale, ecc.)
Il secondo dispositivo coercitivo è rappresentato dalle leggi restrittive contro l’immigrazione, che puniscono non solo i migranti in arrivo con la definizione di “clandestino”, ma anche ogni forma di solidarietà attiva.
Si può trattare del “montanaro” che aiuta i migranti ad attraversare i valichi di confine o la barista di un paese di frontiera (accade a Ventimiglia); può essere il medico che cura anche chi è esterno al sistema sanitario nazionale o il sindaco che forza le regole per distribuire pasti e generi alimentari ai migranti senza permesso di soggiorno, o che, addirittura, facilita un “matrimonio di scopo” proprio per consentire un permesso di soggiorno.
L’attività di Mimmo Lucano come amministratore rientra in molte di queste tipologie. E’ una sintesi tra l’istinto alto della solidarietà umana e le inevitabili forzature o disobbedienza alle leggi esistenti, ostative rispetto alla ricerca di soluzioni compatibili con un bilancio ridotto a meno dell’osso.
L’aver fatto a sportellate con il leader della Lega Salvini, quando ancora non era “ministro e vicepremier”, ha reso Mimmo Lucano un bersaglio predestinato. Ma va sottolineato come le leggi che Mimmo Lucano avrebbe violato non sono neppure quelle emanate dal ministro degli Interni Salvini, ma le norme elaborate dai suoi predecessori “democratici e antirazzisti” (nelle dichiarazioni in tv...), e soprattutto da un altro “illustre” calabrese come Marco Minniti. La prima inchiesta contro Mimmo, ricordiamo risale a oltre un anno fa e Salvini ancora abbaiava in giro invece di sedere sugli scranni del governo.
L’ordinanza che ha portato all’arresto di Mimmo Lucano è una summa di burocrazia leguleia che trasforma in “fattispecie di reato” una serie di azioni dettate dal buonsenso e dalla volontà di chi, ai problemi che si presentano, deve e vuole dare soluzioni.
E non sottolineeremo mai con abbastanza forza che l’impianto accusatorio è stato praticamente demolito – 14 capi di imputazione su 15 – non appena è arrivato alla prima verifica con la legge.
Il giudice che valutato l’ordinanza di quasi mille pagine scrive di aver rilevato “vaghezza e genericità del capo di imputazione”, tale da “non essere idoneo a rappresentare contestazione provvisoria alla quale validamente agganciare un qualsivoglia provvedimento custodiale”. Traduciamo: i fatti contestati non consentono di riconoscere una condotta illecita e tantomeno di far arrestare qualcuno...
Il solo riferimento a “collusioni ed altri mezzi fraudolenti che avrebbero condotto alla perpetrazione dell’illecito si risolve in formula vuota, ossia priva di un reale contenuto di tipicità”. Traduzione: chiacchiere. Il Gip è ancora più perentorio, parlando di “errore tanto grossolano da pregiudicare irrimediabilmente la validità dell’assunto accusatorio”. Diciamo noi, su questa base giuridica, che l’”intento persecutorio” contro Mimmo è stato molto deciso, ma incapace di trovare riscontri anche minimi. Vista la quantità di mezzi messi in campo – intercettazioni, ecc. – probabilmente si può concludere che non ci fossero proprio.
Qualcuno potrebbe obiettare che la disobbedienza alle leggi può essere la scelta individuale o collettiva dei cittadini, ma non l’azione consapevole di un amministratore pubblico. Ma è una distinzione molto ipocrita, oltre che di lana caprina. Un amministratore viene eletto “dal popolo” per realizzare un indirizzo politico e non per fare il passacarte, altrimenti quella rappresentativa sarebbe una funzione del tutto inutile e formale. Basterebbe lasciar fare tutto al segretario comunale e al ragioniere capo.
Se invece un amministratore pubblico – da Palazzo Chigi all’ultimo municipio – è una carica politica, quindi abilitata a fare qualche scelta, allora bisogna rendersi conto che attualmente le leggi esistenti impediscono la realizzazione dell’indirizzo politico su cui un amministratore ha ricevuto mandato.
E dunque ogni amministratore si trova davanti ad un bivio: forzare le regole o adattarvisi. Vale per i governi nazionali come per quelli locali.
Se poi le leggi esistenti contrastano con i valori minimi di giustizia sociale o solidarietà umana, il bivio si fa ancora più pregnante. Anche uno studente del primo anno dovrebbe aver chiaro che giustizia e legalità sono concetti molto differenti, al punto che ciò che è giusto può benissimo essere illegale e viceversa.
Come la legge che, ad esempio, dovrebbe tutelare di più la “proprietà privata” e quindi punire pesantemente le occupazioni di edifici da parte di famiglie senza casa. Ma di fronte all’emergenza oggettiva – migliaia di famiglie, soprattutto “itagliane”, senza possibilità di pagare gli affitti determinati dal “mercato” – come si può accettare una legge che punisce chi agisce in stato di necessità? Come si può rispettare una legge che, privilegiando la tutela della proprietà privata, disattende apertamente la Costituzione, che afferma invece la prevalenza dei diritti sociali collettivi rispetto al medesimo problema?
La Storia, però, ci consegna anche esempi più chiari. Ovviamente terribili. Anche le leggi razziali erano espressione della volontà dello Stato (all’epoca il regime fascista) e come tali richiedevano l’obbedienza da parte di tutti i cittadini. Oggi come allora, avremmo accettato quelle leggi, facendo magari i delatori o girando la testa, o avremmo aiutato una famiglia ebrea a mangiare, nascondersi, sopravvivere, fuggire?
L’idea che la legalità possa essere invocata come unica ratio, a prescindere dalla natura delle leggi (che sono sempre un’impalcatura assolutamente temporanea) è del tutto malsana, illogica, reazionaria. Paralizzante. Si capisce che sia il potere a farla propria. Ridicolo che siano “quelli del cambiamento” a sposarla.
Questa idea deve ormai deve essere radicalmente messa in discussione. Soprattutto perché finisce per confliggere con il più elementare senso di giustizia.
Come cantava il poeta, “c’hanno insegnato la meraviglia / verso la gente che ruba il pane / oggi sappiamo che è un delitto / il non rubare quando si ha fame”.
E Mimmo Lucano – lo dicono anche le carte – non ha nemmeno rubato nulla, al contrario del partito di cui è leader il ministro dell’Interno...
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