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05/01/2019

Il rito apotropaico dell’antirenzismo

È vero. Ha distrutto il centrosinistra italiano, fatto a pezzi il Pd, allontanato militanti ed elettori: senza di lui non sarebbero neanche entrati in Parlamento, figuriamoci andare al governo. Gli dovrebbero essere grati. Ma la gratitudine non è una categoria della politica.

Infatti continuano a nominarlo e maledirlo semplicemente perché hanno bisogno di riti tribali: come antichi sciamani, lo evocano per esorcizzare l’incarnazione del male e suggestionare gli abitanti del villaggio con magiche cerimonie.

Si può esorcizzare la paura di fallire agitando, come in una danza macabra, il fantoccio del fallito. Come quando si brucia “la vecchia”, per scacciare l’inverno, il rito apotropaico per eccellenza, lungo le tradizioni contadine della penisola.

Tuttavia, il fallimento di una leadership non è la sconfitta di una politica. Infatti, una volta al governo, ecco che ne seguono le orme, il “governo del cambiamento” ogni giorno che passa sembra il Renzi bis: il reddito di cittadinanza sembra il reddito di inclusione, quota cento sembra l’Ape.

Il fatto è che sono le politiche che vanno combattute e sconfitte, non le persone. La Storia insegna. Sì, proprio quella i cui insegnamenti vorrebbero togliere dalla scuola pubblica.

Renzi lo hanno assurto a icona mitologica della cattiva politica. Ma così gli hanno dato un posto d’onore nella liturgia del consenso. Nel frattempo, ne hanno fatto uno spettro che appare nei loro incubi. Lui se n’è accorto – lo dice ormai apertamente – loro ancora no. Il Pd non riesce più a liberarsene, come fosse un anatema. Alla sua sinistra, buio pesto: senza qualcuno con cui prendersela non sanno più che dire, figuriamoci che fare.

Sembra scritto per lui il paradigma creato da Oscar Wild in “Il ritratto di Dorian Gray”, secondo cui «There is only one thing in the world worse than being talked about, and that is not being talked about», che tradotto in soldoni suona “bene o male purché se ne parli”: è per Renzi linfa politica vitale.

Il problema cronico della politica italiana non è mai stato “a volte ritornano”, quanto piuttosto “non mi muovo di qui”. Dunque, Renzi c’è.

E ci sarà fintanto che l’idea di poter gestire il neoliberismo con politiche sociali compassionevoli avrà ancora un posto nel dibattito e nella proposta politica.

Alle leggi si possono cambiare i nomi, ma la sostanza è precisa: trasformare i diritti, sanciti dal patto sociale nel welfare state in concessioni da erogare a gruppi sociali, selezionati in base al consenso elettorale, sempre e soltanto compatibilmente al bilancio pubblico. Non è forse quello che stanno facendo ora? Non è forse quello che è stato fatto prima da Renzi?

Anche il ciarliero e vorace Salvini, eroe dei panini, è una macchietta unta e bisunta al cospetto di Minniti, il Fouché di Reggio Calabria.

Non è vero che il centrosinistra ha rincorso le politiche di destra. È vero che gli uni e gli altri si sono alternati all’inseguimento del neoliberismo, come levrieri dopati alla pazza rincorsa del coniglietto di pezza.

È questa la sostanza del discorso sociale che ha determinato il fallimento in tutta Europa dei governi di centrosinistra, spingendo il centrodestra sempre più a destra, verso la xenofobia, l’autoritarismo, la rinascita delle oligarchie e le corporazioni.

Se non cambia la politica è inutile cambiare governo. Gli elettori hanno ancora qualche mese di tempo per accorgersene.

Prossima fermata: elezioni europee. E come dice insistentemente la voce pre-registrata nella metropolitana di Roma: uscita lato destro.

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