Il Medio Oriente è affollato di bracci destri di Donald Trump: il
segretario di Stato Mike Pompeo e il consigliere alla sicurezza
nazionale John Bolton fanno il giro della regione dispensando la
dottrina dell’attuale inquilino della Casa Bianca.
Il più simbolico è sicuramente il discorso che ieri Pompeo ha
tenuto all’American University del Cairo, lo stesso luogo in cui nel
2009 l’allora presidente Barack Obama aprì al mondo arabo e
mediorientale, un’apertura senza precedenti che poi restò carta straccia
visti i successivi interventi muscolari nella regione, eccezion fatta
per lo storico accordo siglato con l’Iran nel 2015. In quello
che venne definito il “tour delle scuse”, Obama promise un accordo di
pace vero tra palestinesi e israeliani e la normalizzazione dei rapporti
con l’Iran. Ha segnato un goal solo, che oggi Trump tenta di annullare.
Pompeo ribalta il tavola e il messaggio è diretto: guerra totale all’Iran. Per farlo chiede un’alleanza ampia ai paesi arabi,
molti dei quali già partecipi delle mosse bellicose di Washington verso
la Repubblica Islamica: “E’ tempo di mettere fine alle vecchie rivalità
per il bene più grande della regione”, ha detto Pompeo. Ovvero la
destabilizzazione di Teheran. Da parte loro gli Usa, definita “una forza
del bene”, “useranno la diplomazia e il lavoro con i partner per
espellere ogni singolo stivale iraniano in Siria” e per ridurre a zero
le esportazioni di petrolio iraniane.
Seguendo una precisa strategia: criticando apertamente Obama per
quello che il segretario di Stato definisce un pensiero “sbagliato” (“Il
presidente Trump ha cancellato la nostra testarda cecità sul pericolo
del regime e si è ritirato da un fallito accordo sul nucleare”, ha detto
Pompeo), gli Usa metteranno da parte “l’inazione” che avrebbe
contraddistinto gli ultimi anni. Strano concetto di inazione, verrebbe
da dire, visto il ruolo centrale giocato dagli Usa in Iraq, in Yemen a
sostegno della coalizione a guida saudita e nella stessa Siria
dove, prima di inviare direttamente i marines, Washington ha appoggiato
finanziariamente e militarmente – a volte creandoli dal nulla – gruppi
di opposizione al governo di Damasco. Per parlare solo degli ultimi anni.
Senza dimenticare proprio il ruolo giocato contro l’Iran da questa
amministrazione che ha stracciato l’accordo sul nucleare e gettato
Teheran in una dura crisi economica a causa di sanzioni immotivate che
hanno fatto scappare compagnie internazionali che in tasca avevano già
belli e firmati contratti miliardari con la Repubblica Islamica. Per
il resto silenzio: Pompeo ha detto due parole sullo Yemen e nessuna sul
popolo palestinese, già cancellato sotto il peso del vago ma temibile
Accordo del Secolo, promesso dal suo capo.
Poche ore prima il consigliere per la sicurezza nazionale
John Bolton, da qualche giorno in tour in Medio Oriente, si era
presentato ad Ankara quasi a mani vuote. I turchi si
aspettavano un piano dettagliato sul fantomatico ritiro Usa dalla Siria,
ma hanno avuto soltanto un programmino a voce, tanto che il presidente
Erdogan ha snobbato l’inviato di Trump e non si è presentato al vertice.
Cinque punti, quelli messi sul tavolo da Bolton, che dovrebbero
definire la strategia trumpiana nel paese in guerra. Al centro, al
solito, c’è l’Iran. Per prima cosa, gli Stati Uniti fanno sapere
che il ritiro ci sarà e sarà “ordinato”, nessun dettaglio sui tempi e i
modi (in particolare sulle basi usate dai marines a Rojava e di cui
Ankara pretende o il controllo o la distruzione). Secondo,
Washington promette di continuare a combattere l’Isis (ma Trump non
aveva detto che era morto e sepolto?) fino al momento dell’addio dalla
Siria. Terzo, la Casa Bianca chiede di negoziare una soluzione sulle unità di difesa popolare curde,
arcinemiche curde e semi-alleate statunitensi: gli Usa non vogliono,
dice Bolton, alcun atto belligerante nei loro confronti, senza
specificare che ne sarà del progetto di confederalismo democratico.
Quarto, gli Usa si impegnano a far uscire le forze iraniane dalla Siria
e, quinto, rigettano completamente l’idea di un rilascio dei miliziani
dell’Isis catturati in questi anni dai curdi (per lo più foreign
fighters) che le Ypg dicono da tempo di non riuscire più a gestire.
Ai piani di Bolton risponde il ministro degli esteri turco Cavusoglu
che ieri ribadiva l’intenzione di Erdogan di lanciare un’offensiva
contro Rojava se gli Stati Uniti avessero ancora ritardato il ritiro
“con scuse ridicole”: “Decideremo noi la tempistica senza aspettare il
permesso di nessuno”. Secondo fonti interne turche, Ankara si attende
una dipartita Usa entro 120 giorni e, ovviamente, il conseguente
allontanamento delle Ypg e delle Ypj dalla città di Manbij, dove Damasco
su richiesta curda ha dispiegato i propri uomini. Regna la confusione e
in tempi di guerra non è affatto una buona notizia.
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