03/01/2019
Macron fa arrestare Eric Drouet, un leader dei gilet gialli
“Dittatura! Dittatura!” grida il popolo francese
Ieri sera mentre con una cinquantina di altri Giltes Jaunes, si trovava a Place de la Concorde a Parigi per una iniziativa commemorativa, Eric Drouet – una delle figure di maggior spicco delle protesta insieme a Priscilla Ludovsky – è stato messo in stato di fermo, per essere interrogato e posto in “guarde à vue”.
I GJ volevano accendere delle candele in ricordo delle dieci vittime decedute dal 17 novembre in seguito ad iniziative del movimento, la scena dell’arresto – il secondo nel giro di poche settimane nei confronti di uno dei due creatori il 15 ottobre dell’evento FB per il blocco del traffico contro il caro-carburante – è stata filmata ed ha fatto subito notizia.
In un post recente il leader degli insoumises – Jean-Luc Mélénchon – aveva tessuto le lodi di questo capopopolo emerso all’interno del movimento, che porta il nome di una figura storica della rivoluzione del 1789, un membro delle classe subalterne che si distinse per la propria autonoma capacità d’azione, dotato di quell’“istinto di classe” che è il carburante di ogni moto popolare.
Interessante, oltre al rimando storico, la citazione di Robespierre – fatta sempre da Mélénchon – sul concetto di legittimità contro quello di legalità, a proposito dell’azione dei san-culotti decisi a far avanzare il processo rivoluzionario a costo di “profanare” le istituzioni che fino ad allora l’avevano rappresentato.
Diciamo che la France Insoumise era la forza più “teoricamente preparata” a comprendere questo movimento, e poter così calibrare il proprio intervento, partecipandovi organicamente sin dal primo giorno e portando dentro le istituzioni le sue istanze, anche perché per la maggior parte sovrapponibili con quelle del proprio programma: dall’aumento dello SMIC (il salario minimo intercategoriale), al ripristino della patrimoniale (l’ISF), fino alle richieste più politiche centrate su una maggiore sovranità popolare (come l’istituzione di un referendum di iniziativa cittadina, il RIC) e la costruzione di una cornice costituzionale che che superi la Quinta Repubblica, con l’elezione di una assemblea costituente.
Il neoleader di quel che resta del Partito Socialista, B. Hamon, basandosi su una “fake news”, aveva criticato JLM per la sua presa di posizione su Eric Drouet, che l’ex candidato alla presidenza credeva un votante del FN ora RN alle ultime elezioni presidenziali.
Il sito di debunking Check News ha ripreso le dichiarazioni pubbliche di Drouet in cui lui afferma testualmente il contrario.
È importante segnalare questa critica davvero malposta perché dà la cifra – le dichiarazioni di Hamon arrivano nelle ore che hanno preceduto il secondo arresto di Drouet – di come parte di quella che qualcuno chiama ancora “Sinistra” sia geneticamente incapace di collocarsi dentro il conflitto di classe che si sta manifestando oltralpe.
Mentre la FI, passando per il PCF e l’NPA – e la quasi totalità della sinistra radicale e dell’antagonismo politico-sociale – è parte integrante del movimento e ha perfettamente compreso la posta in gioco, dopo decenni di offensiva padronale culminati con una ferrea volontà del nocciolo duro dell’entourage macroniano di non cambiare rotta, come conferma il suo discorso a capodanno e l’indurimento delle misure punitive e delle condizione di ricollocazione dei disoccupati che saranno applicate a chi percepisce una indennità.
Il discorso di Macron ha trasudato un distillato di “odio di classe” da manuale, messo da parte i toni vagamente comprensivi e conciliatori del discorso precedente di lunedì 10 dicembre, e riaffermato la volontà di proseguire sulla strada delle “riforme” (da quella dell’indennità di disoccupazione a quella pensionistica), con un preciso monito condito da disprezzo contro il movimento popolare.
Ma procediamo con calma ed analizziamo i passaggi salienti successivi all’Atto VII ed identifichiamo quelli a venire, considerando l’approssimarsi del nuovo atto questo sabato.
Siamo di fronte ad un nuovo episodio del mai del tutto chiarito “affaire Benalla”, il primo vero scandalo dell’era Macron, la cui gestione ha portato ad un drastico calo di consensi secondo i sondaggi e “compattato” una trasversale opposizione all’esecutivo, in cui la variegata compagine della sinistra aveva trovato un banco d’azione unitaria a livello istituzionale dopo l’opposizione alla promulgazione della nuova legge sull’Asilo e l’Immigrazione, che portava il nome e l’imprinting del poi dimissionario ministro dell’Interno, Collomb.
Benalla, una sorta di pretoriano tutto-fare di Macron, inviso probabilmente anche ad una parte del personale istituzionale della sicurezza presidenziale, ha effettuato differenti viaggi in diversi paesi negli ultimi tempi con un passaporto diplomatico, nonostante fosse stato licenziato da tempo dai suoi compiti di sicurezza per cui era stato assunto. E nonostante quel particolare tipo di passaporto non potesse esser dato a figure al seguito del Presidente che non siano diplomatici.
Così questo picchiatore che il Primo Maggio, fuori da ogni cornice legale e senza alcuna regola d’ingaggio, si adoperava nel malmenare alcuni manifestanti a Parigi, insieme ad un altro incaricato della sicurezza di LREM, Vincent Crause, viaggiava da mesi in giro per il mondo come un diplomatico. Nonostante, tra l’altro le inchieste aperte su diversi filoni – in un selfie circolato durante la campagna presidenziale mostrava una pistola, senza avere il porto d’armi – e senza che nessuno gli togliesse il documento utilizzato per svariati viaggi d’affari dall’Africa a Israele.
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