di Sandro Moiso
Il brutale omicidio del generale dei corpi speciali iraniani per le
operazioni all’estero (Divisione Quds) Qassem Soleimani, avvenuto a Baghdad ad opera di un drone o, forse, di elicotteri americani alzatisi
in volo in quei minuti, è già stato paragonato, da un importante membro
per l’Iran del think tank International crisis group, Ali Vaez,
all’omicidio di Francesco Ferdinando avvenuto a Sarajevo il 28 giugno
1914 che, nella sostanza, avrebbe scatenato il primo macello
interimperialista.
In effetti la situazione scaturita dall’azione americana può essere
ben definita come “momento Francesco Ferdinando” proprio perché sia a
livello internazionale sia nello specifico dell’area mediorientale i
fattori destinati a dar luogo ad un nuovo e devastante conflitto
globale sono andati accumulandosi in maniera esponenziale nel corso
degli ultimi anni. Tanto che sarebbe qui impossibile elencarli tutti in
una rapida sintesi.1
L’azione di stampo terroristico, voluta, a quanto pare, direttamente
dal presidente americano e capo delle forze armate statunitensi, si
inserisce in un quadro che però è ben distante da quello troppo
superficialmente disegnato da coloro che nell’unico deus ex-machina
imperialista e americano vedono accumularsi tutta la volontà, le
responsabilità e la pianificazione dell’attentato e delle sue
conseguenze.
Se la scelta scellerata di Donald Trump si inserisce in un clima da
campagna elettorale interno piuttosto movimentato dalla richiesta di
impeachment formulata dal Congresso nelle scorse settimane, è
altrettanto vero che lo “scandalo” urlato e recitato dai membri del
Partito Democratico, Nancy Pelosi in testa, è piuttosto ridicolo
considerata l’attitudine guerrafondaia dimostrata dagli ultimi quando
erano al governo (stesse modalità di eliminazione fisica dei nemici
attraverso l’uso dei corpi speciali, come quella di Osama Bin Laden) o
si apprestavano a tornarvi (si pensi al curriculum
finanziario-bellicista di Hillary Clinton), anche senza tornare ai tempi
di Kennedy della Baia dei Porci o di Johnson col Vietnam. È chiaro
dunque che il primo scontro interno agli Stati Uniti passa tutto
attraverso una propaganda elettorale che rischia di scatenare
un’autentica tempesta a livello globale.
Il secondo elemento, tutt’altro che secondario, sul fronte
statunitense riguarda sicuramente anche il previsto aumento del costo
del petrolio che potrebbe scaturire già dall’attentato e in previsione
delle sue conseguenze: il petrolio e il gas americani sono ancora cari,
ma gli Stati Uniti da tempo dichiarano di avere raggiunto
l’autosufficienza energetica. Tale costo si rifletterebbe pertanto
principalmente sui competitors europei, obbligandoli a schierarsi per
convenienza economica con i padroni di una fetta importante del
cosiddetto oro nero: americani e arabo-sauditi.
Vantaggio economico e geopolitico con cui gli interessi nordamericani
possono continuare a premere sulla già moribonda comunità europea.
La sicurezza degli interessi statunitensi passa infatti maggiormente
attraverso questo tipo di azione ricattatoria più che attraverso
l’azione militare che ne costituisce il corollario. Da sempre.
Anche se poter schierare mezzi e uomini e muovere flotte di mare e aeree
con rapidità in ogni parte del mondo dovrebbe e potrebbe costituire
ancora un valido strumento di pressione su qualsiasi tipo di avversario.
Una propaganda nei fatti dell’American Way of Life che trova
nell’omicidio e nel terrorismo scatenato a livello di massa il suo
principale strumento di convinzione, ancor più che nella produzione di
immaginario hollywoodiano.
Ma, come si diceva all’inizio, l’azione dei droni americani si
inserisce in un contesto in cui tale propensione statunitense all’uso della
forza non rappresenta solo la forza della Land of the Free, ma
anche tutta la sua debolezza. Debolezza politica innanzitutto, ma anche
economica (avendo perso da tempo il primato mondiale) a vantaggio della
Cina.
Debolezza politica che si è manifestata nel corso degli ultimi anni con i due golpe falliti in Turchia e in Venezuela2
ed economica che si manifesta nella perdita di quote importanti di
mercato mondiale e il ricorso a sotterfugi finanziari e speculazioni che
al loro esplodere faranno impallidire le crisi del 2008 e del 1929.3
Al di là delle muscolari prove di forza sui dazi (imposti, lo ricordo
sempre, a cinesi ed europei). Mentre anche il dollaro sembra perdere
sempre più il proprio appeal sui grandi investitori a livello mondiale (qui).
Un declino che si manifesta anche nel gran numero di poveri e di
homeless presenti negli Stati Uniti e che le promesse elettorali di
Trump potranno al massimo portare a morire in guerra invece che di fame
ai bordi delle sue strade. Una volta che le truppe arrivate dal cielo e
dal mare dovranno posare gli stivali sul suolo nemico.
Declino di cui sembrano voler approfittare da tempo avversari e
presunti amici dell’Impero a stelle e strisce, per ricavarsi un nuovo
spazio di protagonismo politico, militare ed economico sullo scacchiere
internazionale. Guarda caso un buon numero di questi (Israele, Turchia,
Arabia Saudita e Iran) si trovano proprio a confliggere nell’area in
questione, mentre nella stessa sembra veder risorgere le proprie
aspirazioni geopolitiche e diplomatiche la Russia dell’abile e
spregiudicatissimo Vladimir Putin.
Ci piaccia o meno, infatti, in quell’area sta avvenendo (come d’altra
parte all’altro capo del mondo) una trasformazione epocale, in
paesi che una vulgata ritardataria e superata dalla Storia (anche a
sinistra) vuole vedere come arretrati, complementari e completamente
sottomessi al giogo occidentale. In realtà sono proprio i conflitti
sociali sorti negli ultimi mesi in Libano, Iraq, Iran come in Cile e nel
resto del Sud America a comunicarci che l’unione tra le forze
proletarie e popolari e le classi al governo si è ormai completamente
consumata e che nel pieno dispiegarsi della modernità nazionale il
conflitto diventa irrinunciabile. Sia sul piano sociale interno sia su
quello militare internazionale.
Turchia, Iran e Arabia Saudita (soltanto per citare l’area che qui
più ci interessa) sono nazioni che giocano già le loro carte in vista di
un ruolo politico ed economico internazionale che non potrà più a lungo
essere negato loro, se non dai propri popoli in rivolta.
Non comprendere ad esempio che, sicuramente, l’assalto all’ambasciata
statunitense di Baghdad nei giorni scorsi, da parte delle milizie
irachene filo-iraniane, ha rappresentato un diversivo ad uso interno per
cercare di frenare le proteste, legate spesso proprio alla popolazione
sciita, contro la corruzione del governo, il malaffare e la mancanza di
lavoro per i giovani, e vedere tutto soltanto in un’ottica vetero
anti-imperialista può far sì che si giunga a travisare parecchio i fatti.
Magari tirando fuori il solito complottismo giudaico, ancor
prima che sionista.
Certo che l’occasione di un conflitto piacerebbe anche ad Israele e
soprattutto al sempre più debole premier Benjamin Netanyahu, proprio per
uscire dai guai politici interni che hanno condannato lo Stato sionista
a tornare più volte al voto nello stesso anno e ancora per quello a
venire, probabilmente senza grandi possibilità di risoluzione della
crisi interna. Mentre ogni nuova guerra nell’area può sempre fornire ad
Israele la possibilità di allargare i suoi confini, ai danni di Gaza,
della Cisgiordania, della Siria e, magari, questa volta anche del
Libano; nella speranza di regolare una volta per tutte i conti con la
resistenza palestinese e gli Hezbollah.
L’Arabia Saudita ha problemi sia interni che finanziari, nonostante il presunto e strombazzato rinnovamento legato al progetto Vision 2030,
internazionali (la guerra prolungata e costosa, ma senza risultati,
nello Yemen in cui comunque si sta già scontrando con forze appoggiate
dallo stesso Iran) e il drammatico affaire Khasshoggi (in cui
tutto il mondo ha potuto cogliere lo zampino criminale del principe
ereditario Mohammad bin Salman Al Sa’ud), e di controllo dei propri
impianti petroliferi e delle rotte navali ad essi collegate.4
La guerra potrebbe servire per definire una volta per tutte il primato
petrolifero tra gli stati che si affacciano sul Golfo e per il controllo
degli stretti e delle vie marittime e degli oleodotti per il trasporto
del greggio. Magari incrementando ancora il valore delle azioni della
Saudi Aramco, la compagnia petrolifera saudita da poco tempo quotata in
borsa (qui).
Anche l’Iran, ormai stella di prima grandezza politica e militare
nell’area, ha la necessità di risolvere i problemi legati ai propri
equilibri interni: sia sociali che politici di apparato. È risaputo che
Soleimani fosse considerato il braccio destro di Ali Khamenei e
possibile futuro presidente. Ma accanto e intorno al regime si
muovono forze più giovani e radicali, legate ai pasdaran e all’industria
bellica, che nella scomparsa di Soleimani possono vedere allargarsi il
proprio peso politico. Iniziando già da subito a suonare le fanfare
delle piogge di razzi e colpi di mortaio sulla Green Zone della capitale
irachena e sulla base aerea di Balad.
La Turchia del sultano Erdogan, infine, sarà quella che cercherà di
trarre più vantaggio dalla fase attuale: sia nei confronti degli Stati
Uniti (chiudendo come sembra abbia fatto nei giorni scorsi lo spazio
aereo intorno alla base aeronautica di Inciclirk, impedendone così l’uso
da parte dell’aviazione americana già impegnata a trasferire uomini e
mezzi nell’area del possibile conflitto), sia nei confronti dell’Europa
minacciando una sua riconquista della Libia con conseguente controllo
sia delle aree petrolifere sia delle rotte delle migrazioni
internazionali. Tornando ad occupare un territorio perso a vantaggio
dell’Italia nel 1911, la novella potenza ottomana potrebbe spartire con i
russi (che virtualmente appoggiano Haftar) il petrolio e il gas libico
e al contempo diventare la padrona incontrastata delle rotte verso
l’Europa, sia balcaniche sia mediterranee, dei milioni di migranti che
fuggiranno dalla guerra. Oltre a poter fare ciò che vorrà nel Nord della
Siria e nel Rojava.
Un mondo nuovo sta venendo alla luce. Un mondo che non per forza deve
piacerci o con cui dobbiamo schierarci a favore o contro. Un mondo che
comunque cambierà radicalmente gli equilibri (e le analisi) a cui da
troppi anni ci siamo assuefatti, dando per scontato ciò che già non lo è
più. Un mondo in cui nuove potenze capitalistiche, estrattiviste e
finanziarie oltre che militari dovranno per forza competere tra di loro e
con i vecchi giocatori alla roulette delle errabonde fortune del
capitale e dell’imperialismo, regionale o internazionale che sia, per
sopravvivere ed affermarsi come tali.
Les jeux sont faits, rien ne va plus!
È proprio tutto ciò, e non solo il fatto che diverse delle nazioni
interessate (Arabia Saudita e Iran soprattutto, ma anche per altri versi
il Venezuela) detengono alcune delle riserve più grandi di petrolio e
gas insieme a USA e Russia oppure che siano divise dal credo religioso
(sunniti, sciiti, ebrei), a determinare il reale pericolo di una guerra
allargata. Molto di più di quando USA e URSS si spartivano allegramente
il pianeta fingendo di fronteggiarsi digrignando i denti ad uso di
spettatori distratti oppure imbevuti di ideologie e visioni del mondo
oggi morte e sepolte.
I veri esclusi in tale gioco, ridotti al ruolo di testimoni
imploranti o, al massimo, di attori di secondo piano o di comparse,
sono gli europei. La vecchia Europa, presunta cristiana e democratica,
ma intimamente fascista, resta alla finestra. Balbetta oppure spara
stronzate come quelle di Salvini a favore di Trump. Ma è sostanzialmente
imbelle, divisa al suo interno. Con una politica estera che piuttosto
che essere comune vede il trionfo degli interessi nazionali e un gioco
al massacro in cui la Francia, pur di veder cancellato il precedente
vantaggio delle società petrolifere italiane in Libia preferisce perdere
tutto in nome di Haftar, dell’Isis o della Turchia.
L’Italietta dei Mattei (Renzi e Salvini), di Luigino e dei Giuseppi si troverà in prima
linea senza averlo neanche deciso, mentre già da questi giorni le forze
aeree e di terra americane hanno iniziato ad usare in maniera massiccia
le basi di Aviano e Vicenza e gli impianti radar e di controllo dei
droni distribuiti sul territorio nazionale da Sigonella al nord (qui).
Il tutto senza nemmeno una telefonata pro-forma del falco Pompeo al
titolare del Ministero degli Esteri italiano. Altro che pericolo per le
forze mercenarie italiane dislocate all’estero di cui i media vanno
blaterando: lo scoppio di una guerra in Medio Oriente vedrà in futuro in
prima linea la popolazione civile italiana, esposta alle ritorsioni di
qualsiasi avversario dotato di missili a media e lunga gittata.
L’Europa degli Stati è finita. Una nuova epoca potrebbe ricominciare
soltanto dal diffondersi delle lotte sociali e ambientali, dal basso e
di classe, mentre le sardine trasformate in struzzi dal precipitare
degli eventi continueranno a blaterare, con la testa ben coperta di
sabbia, di non violenza e di equiparazione della violenza verbale a
quella fisica. Autentici morti in piedi in attesa di una morte reale che
arriverà attraverso le porte dell’Inferno che potrebbero spalancarsi a
partire da Baghdad.
Ancora una volta la violenza sarà levatrice della Storia: una
violenza spietata e distruttiva, rapace e implacabile che solo la
rivolta dei popoli e di coloro che si opporranno alla guerra, senza
parteggiare per nessuna delle nazioni coinvolte ma in nome di una
superiore comunità umana, potrà rovesciare nell’atto di nascita di
un’altra nuova e più egualitaria società. Libera dal profitto, dal
lavoro coatto e dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo su
una Natura considerata come separata dalla specie e dai suoi interessi
fondamentali.
Note:
1) A questo proposito preferisco rinviare al mio testo La guerra che viene, Mimesis 2019; in particolare alla Prima sezione, Sangue sul Medio Oriente ( e non solo), pp. 41-110
2) Per la Turchia si veda il mio https://www.carmillaonline.com/2016/07/25/ucuncu-dunya-savasi/ contenuto anche in La guerra che viene, op.cit.
3) Si veda come esempio recente: https://it.businessinsider.com/il-jaccuse-del-re-dei-giornalisti-finanziari-il-capitalismo-e-nelle-mani-dei-capitalisti-senza-capitale/
4) Sono proprio dei giorni scorsi le manovre navali congiunte tra Russia, Cina e Iran, tra l’Ocean Indiano e il Golfo di Oman, denominate Cintura di sicurezza marina.
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