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03/02/2024

Controllo dei prezzi: per cosa e per chi?

Un anno fa parlavamo, sempre su queste frequenze, del controllo pubblico dei prezzi. Si tratta di un potentissimo strumento che uno Stato ha a disposizione e che dovrebbe utilizzare per difendere il potere d’acquisto di lavoratori e lavoratrici, compromesso in questi ultimi anni da ritorno dell’inflazione.

Come sappiamo, infatti, le grandi imprese hanno prontamente approfittato della crisi per difendere, se non aumentare, i propri margini di profitto, scaricando sulle famiglie il costo dell’ennesimo crack economico, iniziato con la pandemia e protrattosi con la guerra.

L’ultima novità in tal senso è che anche una parte consistente delle grandi aziende europee ha iniziato a richiedere a gran voce l’introduzione di prezzi energetici amministrati, al fine di tutelare la competitività europea a livello internazionale. L’esempio più esplicito in tal senso ci è stato fornito dalle richieste presentate da European Round Table for industry (ERT) – un’associazione datoriale che include alcuni tra i più grandi gruppi industriali europei – a Mario Draghi, in un incontro orientato alla stesura del rapporto sulla competitività che l’ex presidente del Consiglio sta preparando su mandato della Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.

In altre parole, i padroni stanno gridando a gran voce che, se il differenziale nei costi energetici con le altre grandi economie a livello globale (Stati Uniti e Cina in primis) non dovesse diminuire nei prossimi anni, le loro aziende saranno costrette a intraprendere un riassetto delle proprie attività, delocalizzando la produzione verso quei paesi che garantiscono costi energetici inferiori e dunque maggiori profitti.

Una contraddizione lampante emerge da queste richieste del mondo datoriale: dopo decenni di venerazione del libero mercato, delle deregolamentazioni (che si traducono in maggiore libertà di licenziare), della riduzione dell’intervento pubblico, ecco che ora le imprese scoprono le virtù della regolamentazione pubblica, da utilizzare a difesa dei profitti.

Cosa significa tutto questo? Le imprese europee sono effettivamente danneggiate dall’aumento dei costi energetici e dalle materie prime, in gran parte importate? E se così è, siamo davvero tutti sulla stessa barca? Proviamo a rispondere con ordine a questi interrogativi.

La guerra in Ucraina ha cambiato le carte in tavola e le regole del gioco. Se la significativa riduzione delle forniture russe di petrolio, e soprattutto di gas, costituisce uno dei pilastri della nuova strategia europea per la sicurezza energetica, questa risulta estremamente problematica una volta considerati gli elementi di costo. Effettivamente, i rincari energetici che hanno dovuto fronteggiare le aziende europee sono stati infatti maggiori rispetto a quelli che si sono verificati negli Stati Uniti o in Cina e stanno già comportando ripercussioni strutturali sulla competitività del tessuto industriale europeo, tanto da sollevare dubbi sulla tenuta complessiva del modello economico tedesco ed europeo.

Un assaggio di questo fenomeno ci è fornito dal rapporto annuale di Agora Energiewende, una rete che collabora col governo tedesco nell’ambito delle politiche per la transizione. Il report segnala che le emissioni di CO2 tedesche sono diminuite, nel solo 2023, del 21% rispetto al 2022, con una riduzione di 73 milioni di tonnellate che porta le emissioni totali al livello più basso registrato dagli anni Cinquanta. A prima vista, sembrerebbe un grande successo per le politiche di transizione tedesche, guidato dal minor utilizzo di carbone nella produzione di energia elettrica e dal maggior ricorso alle rinnovabili. Approfondendo, tuttavia, notiamo che il calo delle emissioni è stato favorito non solo da una significativa diminuzione della domanda di elettricità e da un aumento delle importazioni di elettricità (rinnovabile) dai paesi vicini, ma anche dalla riduzione delle emissioni dell’industria causata da un enorme calo della produzione dei settori energivori (-11% nel 2023 e -20% dall’inizio della guerra). In dettaglio, la riduzione delle emissioni nel 2023 è spiegabile per il 23% dai tagli alla produzione industriale e per l’11% dalla riduzione del consumo di energia nell’industria. Solo una parte fortemente minoritaria della riduzione delle immissioni è dovuta alle misure legate alla transizione: maggiore efficienza energetica (7%), espansione delle rinnovabili (8%), riduzione dell’uso di veicoli pesanti (4%), riduzione a lungo termine delle emissioni industriali (4%) e riduzione dimensioni degli allevamenti (1%).

Senza una svolta nella politica industriale europea, tutt’altro che probabile al momento, siamo dunque diretti verso un processo di deindustrializzazione che non interessa più esclusivamente l’economia italiana e la periferia europea meridionale, ma coinvolge ormai anche il centro manifatturiero tedesco.

Di fronte a questa prima risposta verrebbe, dunque, da pensare che lavoratrici e lavoratori europei siano quindi sulla stessa barca dei grandi gruppi industriali, uniti dalla rivendicazione di un controllo pubblico sui prezzi strategici, a partire da quelli energetici. Niente di più errato. Tant’è che le imprese chiedono allo Stato di coprire parte dei loro costi, mentre Repubblica ci dice, citando Bankitalia, che l’inflazione si è già mangiata più del 12% dei risparmi accumulati dalle famiglie.

In primo luogo, il modello tedesco ed europeo basato sulle esportazioni è strutturalmente orientato al contenimento dei costi di produzione, siano essi salari o bollette energetiche. Non si può avere nulla a che spartire con chi ti bastona quotidianamente per difendere i propri profitti.

Ma ci sono altre ragioni specifiche per cui le nostre rivendicazioni sono intrinsecamente inconciliabili con le loro. Il ritorno in vigore dal 2024 del Patto di austerità ha già da tempo portato gli esecutivi europei a ridimensionare, se non a eliminare completamente, le misure finalizzate a tutelare le famiglie meno abbienti dai rincari delle bollette energetiche, delle pompe di benzina e dei carrelli della spesa. I grandi gruppi industriali chiedono infatti di essere gli unici destinatari di quelle risorse pubbliche, che devono essere orientate ai padroni nei settori più colpiti. Sgomitano anche tra loro per accaparrarsi la fetta più grossa, figurarsi se son disposti a spartirla coi lavoratori. Dal canto loro, le istituzioni europee e i governi nazionali affiancano e assecondano i desiderata del capitalismo europeo.

In secondo luogo, e forse ancor più importante, l’attuale dinamica inflazionistica è legata a doppio nodo con le esigenze della transizione ecologica ed energetica, specialmente nella sua componente più persistente. Rinunciare al gas russo e alle fonti fossili in generale richiederà nei prossimi anni e decenni uno sforzo imponente in termini di investimenti industriali e infrastrutturali. I grandi gruppi europei non sono minimamente disposti ad accollarsi le spese di progetti caratterizzati da alto rischio, potenziali perdite nel breve e profitti (incerti) e solo nel medio periodo. La loro richiesta è semplice (e talvolta esplicita, come nel caso dell’ex Ilva): lo Stato e la fiscalità generale devono accollarsi le spese e gli investimenti nella decarbonizzazione, per poi mollare l’osso una volta che la tempesta è passata. Il solito vecchio motto dei padroni torna in auge: socializzare le perdite, privatizzare i profitti.

In definitiva, anche di fronte agli ostacoli della transizione non siamo uguali e il nostro controllo dei prezzi non è uguale al loro. Se noi chiediamo che nessuno sia lasciato indietro e che le misure di sostegno alle famiglie più in difficoltà siano ripristinate, loro vogliono tutto il malloppo per arricchirsi ulteriormente, non importa a quale costo. Se noi chiediamo la piena occupazione, anche per tutti quei lavoratori che saranno investiti dallo smantellamento dei settori più inquinanti, loro lamentano la scarsità di lavoratori nei settori di loro interesse e non fanno formazione. Se noi chiediamo che le partecipate pubbliche diventino le protagoniste di una transizione energetica e industriale orientata socialmente, loro chiedono allo Stato nazionalizzazioni a tempo, privatizzazioni e mance miliardarie, senza curarsi dell’interesse generale. Non siamo uguali. Non siamo, neanche stavolta, sulla stessa barca.

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