“Devotissimi della Chiesa,
fedelissimi del pallone, nullapensanti della televisione. Siamo i
ragazzi del coro, le casalinghe sempre d’accordo, e la classe operaia
nemmeno me la ricordo”. Così cantava Ivano Fossati
qualche anno fa, fotografando con estrema precisione una nociva
tendenza sempre più diffusa nella politica italiana: relegare in un
angolo il dibattito sul tema del lavoro in fabbrica. In tutt’altre
faccende affaccendati, distratti da un Parlamento sempre più
autoreferenziale che si occupa soltanto di autorizzazioni a procedere
(ovviamente negate) e di nipoti di capi di stato stranieri (ovviamente
fasulle), ogni volta che i problemi relativi a catene di montaggio e
diritti sindacali irrompono nelle nostre discussioni, ci ritroviamo
disorientati e inebetiti. Abbiamo dimenticato la grammatica relativa a
questa materia, e anche il lessico. Parole come capitalista,
proletariato e classe operaia sono cadute nel dimenticatoio, e chi si
azzarda a rispolverarle viene stigmatizzato come un veteroKompagno nostalgico degli anni di piombo.
Invece farebbe bene alla politica
tornare ad occuparsi di questi temi, soprattutto in una fase storica
nella quale si attribuisce alla classe operaia la responsabilità di una
crisi generata da banchieri e magnati della finanza, e in virtù di ciò
si torna a mettere in discussione diritti conquistati con anni e anni di
lotte e sacrifici.
Il caso più emblematico è quello della discriminazione attuata dai dirigenti della Fiat, i quali hanno “richiamato” oltre 660 persone – precedentemente in cassa integrazione – a lavorare nello stabilimento di Pomigliano. In questo modo i dipendenti impiegati nella fabbrica che produce la nuova Panda sono divenuti 1845, ma tra questi non c’è neppure un operaio iscritto alla FIOM.
Poiché è fuori dalla grazia divina pensare che si tratti di una
coincidenza, o che gli iscritti al sindacato di Landini siano tutti
“sfigati”, allora vuol dire che siamo di fronte a un evidente caso di discriminazione sul lavoro.
Discriminazione che è ancor più grave dal momento che viene esercitata
nei confronti di singoli operai, umiliati e fatti oggetto di vere e proprie rappresaglie squadristiche
da parte di capi e capetti, per colpire l’ultimo sindacato che osa
alzare la testa di fronte a chi cerca di eliminare di ogni forma di
democrazia in fabbrica. Ne colpiscono uno per educarne cento. Un vero e
proprio razzismo sindacale, che calpesta non soltanto la Costituzione (art. 3 e art. 39), ma anche il rispetto della libertà degli individui.
Ora, di fronte a questo abominio, la
politica cosa fa? Tace. Di tanto in tanto blatera e sussulta, ma poi
subito si assopisce. Ed è un silenzio che fa male tanto quanto la
prepotenza e la sbruffonaggine di un manager che parla sempre col dito
alzato e scarica la colpa dei propri fallimenti su operai che devono
lavorare almeno tre anni per guadagnare quello che lui s’intasca in un giorno.
È un silenzio, quello dei politici, dei ministri e dei tecnici, che è
criminale, perché di fatto non fa che avallare e consentire un
atteggiamento di minaccia e di discriminazione perpetrato con mezzi meschini
da chi ha la certezza dell’impunità. E in casi come questi il silenzio è
complice. Non è diverso dal silenzio imbelle, della Monarchia e del
Vaticano, che accompagnò la promulgazione delle leggi razziali e le
deportazioni degli ebrei nei campi di sterminio. È una pratica fin
troppo comoda, e tristemente diffusa tra i vari leader politici: quella
di lavarsi le mani cercando di reggersi sull’equilibrio precario della
loro incoerenza per non deludere né l’una né l’altra parte
dell’elettorato. E così facendo, partecipano ad un’operazione di
tremenda regressione sociale, che consegnerà ai bambini di oggi un Paese
che garantirà loro meno diritti e meno tutele. Un Paese meno libero,
con maggior disuguaglianza sociale e con molta più discriminazione tra
ricchi e poveri, tra padroni e operai, e con una lotta fratricida tra
precari e disoccupati, con generazioni messe l’una contro l’altra a
rimproverarsi a vicenda le responsabilità di una povertà generale che
invece è causata da una politica che per vent’anni ha ignorato i veri
problemi e ha discusso d’altro.
Ogni volta che vanno in TV, gli
esponenti di Pd, Pdl, Lega e Udc condannano aspramente il “mostro
dell’antipolitica che si nutre di populismo e qualunquismo”. Eppure, se
c’è una cosa realmente antipolitica, cioè contraria al tentativo di
indicare delle direzioni da seguire per una comunità, è proprio il
silenzio, il disinteresse, l’alzata di spalle.
Il ministro Fornero,
tra una lacrima e un annuncio di voler incontrare Marchionne, potrebbe
intanto dire come la pensa a proposito dell’assenza di un solo tesserato
FIOM tra i 1845 dipendenti di Pomigliano. E il premier Monti ci dica se
tra i tanti pregi dell’Italia e tra i tanti vanti del suo governo che
ha appena illustrato a Obama, ha incluso anche questa insopportabile
ingiustizia. E chieda ai suoi tanti ministri che condannano la logica
del posto fisso e l’attaccamento a mamma e papà, se è più monotono avere
un lavoro sicuro e tutelato oppure essere discriminati e lasciati a
casa con la colpa di avere la tessera sindacale sbagliata. E Napolitano,
ora che è anche laureato, potrà sicuramente spiegare agli Italiani se
non sia possibile ravvisare gli estremi dell’anticostituzionalità in una
simile vicenda.
Potremo anche ridurre lo spread e aumentare la crescita, ma se
abroghiamo i diritti degli individui, saremo comunque un Paese peggiore.
Fonte.
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