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12/02/2012

Gli operai FIOM epurati dalla Fiat

Devotissimi della Chiesa, fedelissimi del pallone, nullapensanti della televisione. Siamo i ragazzi del coro, le casalinghe sempre d’accordo, e la classe operaia nemmeno me la ricordo”. Così cantava Ivano Fossati qualche anno fa, fotografando con estrema precisione una nociva tendenza sempre più diffusa nella politica italiana: relegare in un angolo il dibattito sul tema del lavoro in fabbrica. In tutt’altre faccende affaccendati, distratti da un Parlamento sempre più autoreferenziale che si occupa soltanto di autorizzazioni a procedere (ovviamente negate) e di nipoti di capi di stato stranieri (ovviamente fasulle), ogni volta che i problemi relativi a catene di montaggio e diritti sindacali irrompono nelle nostre discussioni, ci ritroviamo disorientati e inebetiti. Abbiamo dimenticato la grammatica relativa a questa materia, e anche il lessico. Parole come capitalista, proletariato e classe operaia sono cadute nel dimenticatoio, e chi si azzarda a rispolverarle viene stigmatizzato come un veteroKompagno nostalgico degli anni di piombo.

Invece farebbe bene alla politica tornare ad occuparsi di questi temi, soprattutto in una fase storica nella quale si attribuisce alla classe operaia la responsabilità di una crisi generata da banchieri e magnati della finanza, e in virtù di ciò si torna a mettere in discussione diritti conquistati con anni e anni di lotte e sacrifici.

Il caso più emblematico è quello della discriminazione attuata dai dirigenti della Fiat, i quali hanno “richiamato” oltre 660 persone – precedentemente in cassa integrazione – a lavorare nello stabilimento di Pomigliano. In questo modo i dipendenti impiegati nella fabbrica che produce la nuova Panda sono divenuti 1845, ma tra questi non c’è neppure un operaio iscritto alla FIOM. Poiché è fuori dalla grazia divina pensare che si tratti di una coincidenza, o che gli iscritti al sindacato di Landini siano tutti “sfigati”, allora vuol dire che siamo di fronte a un evidente caso di discriminazione sul lavoro. Discriminazione che è ancor più grave dal momento che viene esercitata nei confronti di singoli operai, umiliati e fatti oggetto di vere e proprie rappresaglie squadristiche da parte di capi e capetti, per colpire l’ultimo sindacato che osa alzare la testa di fronte a chi cerca di eliminare di ogni forma di democrazia in fabbrica. Ne colpiscono uno per educarne cento. Un vero e proprio razzismo sindacale, che calpesta non soltanto la Costituzione (art. 3 e art. 39), ma anche il rispetto della libertà degli individui.

Ora, di fronte a questo abominio, la politica cosa fa? Tace. Di tanto in tanto blatera e sussulta, ma poi subito si assopisce. Ed è un silenzio che fa male tanto quanto la prepotenza e la sbruffonaggine di un manager che parla sempre col dito alzato e scarica la colpa dei propri fallimenti su operai che devono lavorare almeno tre anni per guadagnare quello che lui s’intasca in un giorno. È un silenzio, quello dei politici, dei ministri e dei tecnici, che è criminale, perché di fatto non fa che avallare e consentire un atteggiamento di minaccia e di discriminazione perpetrato con mezzi meschini da chi ha la certezza dell’impunità. E in casi come questi il silenzio è complice. Non è diverso dal silenzio imbelle, della Monarchia e del Vaticano, che accompagnò la promulgazione delle leggi razziali e le deportazioni degli ebrei nei campi di sterminio. È una pratica fin troppo comoda, e tristemente diffusa tra i vari leader politici: quella di lavarsi le mani cercando di reggersi sull’equilibrio precario della loro incoerenza per non deludere né l’una né l’altra parte dell’elettorato. E così facendo, partecipano ad un’operazione di tremenda regressione sociale, che consegnerà ai bambini di oggi un Paese che garantirà loro meno diritti e meno tutele. Un Paese meno libero, con maggior disuguaglianza sociale e con molta più discriminazione tra ricchi e poveri, tra padroni e operai, e con una lotta fratricida tra precari e disoccupati, con generazioni messe l’una contro l’altra a rimproverarsi a vicenda le responsabilità di una povertà generale che invece è causata da una politica che per vent’anni ha ignorato i veri problemi e ha discusso d’altro.

Ogni volta che vanno in TV, gli esponenti di Pd, Pdl, Lega e Udc condannano aspramente il “mostro dell’antipolitica che si nutre di populismo e qualunquismo”. Eppure, se c’è una cosa realmente antipolitica, cioè contraria al tentativo di indicare delle direzioni da seguire per una comunità, è proprio il silenzio, il disinteresse, l’alzata di spalle.
 Il ministro Fornero, tra una lacrima e un annuncio di voler incontrare Marchionne, potrebbe intanto dire come la pensa a proposito dell’assenza di un solo tesserato FIOM tra i 1845 dipendenti di Pomigliano. E il premier Monti ci dica se tra i tanti pregi dell’Italia e tra i tanti vanti del suo governo che ha appena illustrato a Obama, ha incluso anche questa insopportabile ingiustizia. E chieda ai suoi tanti ministri che condannano la logica del posto fisso e l’attaccamento a mamma e papà, se è più monotono avere un lavoro sicuro e tutelato oppure essere discriminati e lasciati a casa con la colpa di avere la tessera sindacale sbagliata. E Napolitano, ora che è anche laureato, potrà sicuramente spiegare agli Italiani se non sia possibile ravvisare gli estremi dell’anticostituzionalità in una simile vicenda.

Potremo anche ridurre lo spread e aumentare la crescita, ma se abroghiamo i diritti degli individui, saremo comunque un Paese peggiore.


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