Si è fatto fotografare nella Casa degli schiavi, sull’isola di Gorée in Senegal, mentre guarda pensoso l’Atlantico attraverso cui milioni di africani furono trasportati in catene nelle Americhe. Si è detto ispirato, come «Presidente afro-americano», da questo luogo che «mi dà motivazioni ancora più grandi per difendere i diritti umani in tutto il mondo». Con questi toni il presidente Obama ha iniziato il suo viaggio in Africa.
Ma, in Sudafrica, è stato accolto da migliaia di lavoratori e studenti che lo hanno definito «schiavista», accusandolo di tradimento delle promesse elettorali e di crimini di guerra. Obama non è neppure riuscito a farsi fotografare al capezzale di Nelson Mandela, immagine-simbolo a cui tanto teneva.
Non tutto quindi è andato per il verso giusto nell’«Africa Trip 2013». Giro di propaganda costato un centinaio di milioni di dollari: al seguito del Presidente sono arrivati dagli Usa centinaia di agenti dei servizi segreti, con 56 veicoli speciali tra cui 14 limousine corazzate e tre camion carichi di vetri antiproiettile, e una portaerei i cui caccia hanno preso il controllo dello spazio aereo lungo il percorso presidenziale.
La vera ragione del viaggio è venuta alla luce quando Obama ha dichiarato che «la Cina rivolge molta attenzione all’Africa» e che è «interesse degli Stati Uniti approfondire e allargare le partenership con i paesi africani». C’è però un problema: gli Usa non riescono a competere economicamente con la Cina, i cui investimenti sono per i paesi africani molto più utili e vantaggiosi a confronto di quelli statunitensi, che puntano al massimo profitto concentrandosi nello sfruttamento delle risorse energetiche e minerali. Per contrastare l’influenza cinese e rafforzare quella statunitense in Africa, l’amministrazione Obama ricorre soprattutto a strumenti politici e militari.
Tra questi, «l’Iniziativa per i giovani leader africani», il cui scopo è «sviluppare una prestigiosa rete di giovani leader in settori fondamentali e cementare legami ancora più forti con gli Stati Uniti». Attraverso «forum di alto profilo» e oltre 2mila «programmi per la gioventù» finanziati con milioni di dollari, Washington cerca di creare in Africa nuove élite dirigenti filo-Usa.
Contemporaneamente, attraverso il Comando Africa, rafforza la presenza militare Usa nel continente. La principale base per tale operazione è Sigonella. Qui è stata dispiegata la Special-Purpose Marine Air-Ground Task Force (Magtf) del Corpo dei Marines, che, dotata di convertiplani MV-22 Ospreys e aerei-cisterna C-130, invia a rotazione squadre in Africa. Da gennaio ad oggi, partendo da Sigonella, ha addestrato forze speciali africane in Uganda, Burundi, Camerun, Ghana, Burkina Faso, Seicelle, Mozambico, Tanzania, Senegal e Liberia.
La task force di Sigonella collabora anche al Military Intelligence Basic Officer Course-Africa, attraverso cui vengono formati ufficiali dei servizi segreti africani in Kenya, Etiopia, Sud Sudan, Nigeria e altri paesi. Il corso Miboc-A viene definito «una delle centinaia di attività per la sicurezza svolte dai militari Usa in Africa».
Si estende così sull’Africa la rete militare Usa, che attraverso molteplici legami recluta ufficiali e forze speciali locali. Operazione diretta dal Comando Africa, che pochi giorni fa ha installato, presso la Task force congiunta per il Corno d’Africa a Gibuti, il suo primo «posto di comando avanzato» nel continente.
Nuova versione dei vecchi strumenti di dominio coloniale. Stia però attento Obama: come ha detto lui stesso, «l’Africa si sta sollevando».
di Manilo Dinucci da il manifesto, 2 luglio 2013
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