Colpiti i depositi del porto siriano, roccaforte della famiglia Assad. Tel Aviv non conferma né smentisce. Obiettivo i missili russi?
Moshe Yaalon ha il tono di chi sa molto ma non ha alcuna intenzione di
comunicarlo ad altri. «In Medio Oriente c'è un'esplosione qui, un
attacco lì, il più delle volte accusano noi - ha detto due giorni fa il
ministro della Difesa israeliano - Non stiamo intervenendo nella
sanguinosa guerra civile in Siria ma ci sono delle 'linee rosse' e vanno
mantenute».
Yaalon quindi non conferma e non smentisce le indiscrezioni insistenti
su nuovi blitz israeliani. Da più parti si dice che lo Stato ebraico
ha attaccato ancora in territorio siriano, per la quarta volta
dall'inizio dell'anno. Stavolta però non con l'aviazione bensì con
missili cruise lanciati dalla sua Marina militare.
Cosa sia accaduto il 5 luglio nel porto siriano di Latakia resta un mistero. Una
serie di potenti esplosioni hanno polverizzato depositi di armi e
ucciso, pare, una ventina di soldati della caserma di Safira alla
periferia della città-roccaforte della famiglia del presidente Bashar
Assad, a pochi km da Tartus, scalo privilegiato nel Mediterraneo
delle navi da guerra russe. Da Damasco la notizia è stata spiegata come
un attacco da parte di uomini al Qaeda, alleata dei ribelli
anti-governativi.
Per Al Manar, la stazione tv del movimento sciita libanese
Hezbollah, alleato di Damasco, le esplosioni sarebbero state causate da
colpi di mortaio (dei ribelli) andati fuori bersaglio. Invece un altro giornale libanese, al Akhbar,
ha avanzato per primo l'ipotesi di un attacco di forze straniere, con
tre missili sparati dal mare. Versione sostenuta anche da Qassem
Saadeddine, un portavoce dell'Esercito libero siriano, la milizia
ribelle, secondo il quale i missili hanno colpito i depositi con i missili russi
"Yakhont" (P-800 Oniks), appena forniti da Mosca all'Esercito siriano.
Si tratta di missili anti-nave dotati di sistemi radar dell'ultima
generazione con un raggio a bassa quota di 120 km, una velocità
superiore a Mach 2 e con una testata di 250 kg di esplosivo ad alto
potenziale. Un missile trasportato da unità mobili in grado di
minacciare la Marina dello Stato ebraico e, potenzialmente, di tenere
sotto tiro i giacimenti israeliani di gas offshore. Motivi sufficienti
per lanciare un nuovo attacco, stavolta dal mare, da parte del governo
Netanyahu interessato a mantenere con le buone e, soprattutto, con le cattive la superiorità militare di Israele.
A metà maggio un anonimo alto ufficiale israeliano aveva detto al New York Times,
che Tel Aviv era pronta a colpire ancora in Siria «se necessario», in
riferimento ai tre raid aerei (il primo a fine gennaio, gli altri due il
3 e il 5 maggio) compiuti a Sud di Damasco e intorno alla capitale
siriana per bloccare - secondo la versione data da Israele attraverso
canali diplomatici e giornali
stranieri - convogli di armi con i razzi russi SA-17 in apparenza
destinati a Hezbollah. Raid che, stando a indiscrezioni, Israele
avrebbe compiuto addirittura non entrando nello spazio aereo siriano ma
sparando missili dal Libano e dalla Giordania. Così come l'altra sera la
Marina israeliana avrebbe sparato i cruise dalle acque internazionali.
Potrebbe però essere stato anche un avvertimento lanciato ai russi che
si accingerebbero a rispettare il contratto per la fornitura alla Siria
delle batterie S-300, missili terra-aria che rappresentano uno dei
migliori sistemi di difesa da attacchi aerei, cruise (appunto) e missili
balistici. Una difesa formidabile che darebbe alla Siria la possibilità
di contenere l'evidente superiorità aerea di Israele. Gli S-300 li
vuole anche l'Iran ma la Russia in questo caso prende tempo. Per questo
il governo Netanyahu sta facendo - con l'aiuto degli alleati Usa - forti
pressioni su Mosca affinché congeli sine die la consegna degli S-300 attesi alle Forze Armate siriane.
È di qualche giorno fa la missione in Russia della ministra israeliana
Tzipi Livni, per convincere Vladimir Putin a fermare tutto. In ogni caso
il ministro della Difesa israeliano Yaalon è stato perentorio
nell'affermare, qualche mese fa, che Israele «saprà cosa fare» nel caso
gli S-300 venissero effettivamente consegnati a Damasco.
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