11/07/2013
Libia, quel che resta della “rivoluzione”
Pochi mesi fa è stato celebrato in sordina il secondo anniversario della “rivoluzione” del 17 febbraio che ha provocato la caduta del regime di Gheddafi. E poco meno di un anno fa sono state indette le prime elezioni “libere” in Libia. Oggi, da come viene trattata la questione libica nei media mainstream, si potrebbe pensare che il paese sia entrato nella “normalità” e che i vari episodi di violenza siano effetti collaterali della fase di transizione verso la democrazia.
In realtà, questa “normalità” è un po’ simile a quella dell’Iraq, che sta durando da 10 anni, dove regna il caos totale e dove si continua a morire nell’indifferenza della “comunità internazionale”. Il paese è devastato dai jihadisti e gli attentati mortali vengono registrati dai media come fatti di cronaca. Ed è questa la “normalità” drammatica nella quale si trova la Libia.
Prima della cosiddetta “rivoluzione”, in Libia vivevano 6,5 milioni di persone, di cui più di 2 milioni erano immigrati (lavoratori con famiglie). Oggi quasi tutti gli immigrati e più di un milione di libici ha lasciato il paese. La guerra della Nato del 2011 ha distrutto gran parte delle infrastrutture, l’economia è regredita drasticamente ed ecco povertà e disoccupazione in un paese che fino a ieri era il più ricco dell’Africa.
Le tribù, armate fino ai denti, si ammazzano tra di loro per accaparrarsi “l’appalto” per la protezione di pozzi di petrolio e di gas naturale e cercano di imporre il pizzo al “governo” libico e alle multinazionali. Qualche mese fa ci fu uno scontro mortale a Zintan e Zuara per aggiudicarsi la “protezione” dell’impianto di petrolio e gas di proprietà della Mallitah, una joint-venture tra la National Oil Company libica e l’Eni.
La Libia è diventata un grande bazar mondiale per lo smercio di armi: utilizzate all’interno del paese da milizie, bande criminali e jihadisti; altre trasportate all’estero per armare i mercenari e i jihadisti impegnati nella destabilizzazione di altri paesi, come la Siria.
L’International Crisis Group ha pubblicato il 17 aprile un rapporto sulla Libia in cui si parla di uno stato di insicurezza generale. Il sistema giudiziario è paralizzato. Brigate armate, la cui creazione è stata approvata a suo tempo dal Consiglio nazionale di transizione, gestiscono numerose prigioni dove impongono la loro giustizia sommaria fatta di torture e omicidi.
A marzo, Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto in cui denuncia la pulizia etnica a Tawergha, da dove 40mila libici (in maggioranza neri) sono stati costretti a fuggire. Tawergha è diventata una città fantasma e molti dei suoi abitanti sono stati detenuti arbitrariamente, torturati e assassinati. La vasta rappresaglia contro la popolazione nera, accusata di essere stata complice di Gheddafi, è avvenuta dopo l’assassinio di quest’ultimo il 20 ottobre 2011.
E le cose vanno peggiorando. Ad aprile gruppi armati hanno invaso la sede del parlamento e quella di diversi ministeri. Milizie che dettano oggi le regole. E gli sponsor della guerra contro la Libia sembrano perdere il controllo del gioco. L’attentato contro l’ambasciata francese il 23 aprile scorso e la riduzione del personale dell’ambasciata britannica a maggio per motivi di sicurezza, sono ulteriori prove della gravissima instabilità causata dall’intervento Nato in Libia. Il 17 febbraio 2011 i francesi e i britannici erano a Bengasi a sostenere gli insorti – o, meglio, a impartire ordini – oggi invece la loro presenza non sembra gradita dai gruppi armati, anzi sono diventati anche loro potenziali vittime del terrorismo che hanno utilizzato per distruggere la Libia.
E il prezzo più alto lo stanno pagando gli Usa. Il 12 settembre 2012 l’ambasciatore americano Stevens ha perso la vita in un attentato a Bengasi. La reazione ambigua di Washington ha suscitato interrogativi ad oggi ancora irrisolti. È più che legittimo chiedersi come mai dopo quasi un anno gli Usa non hanno fatto nulla riguardo a quell’attentato. Cosa c’è dietro questa faccenda?
Stando alle recenti audizioni del Congresso Usa, sembrerebbe che ci sia stata un’operazione di insabbiamento riguardante la ricostruzione della dinamica dell’attacco. Secondo l’ex vice ambasciatore Gregory Hicks, le forze speciali americane sarebbero potute intervenire ma avrebbero avuto l’ordine di non muoversi. Inoltre, il generale David Petraeus si sarebbe opposto alla decisione di escludere dalla dichiarazione ufficiale il fatto che pochi giorni prima c’era stato un allarme attentato contro l’ambasciata. Due mesi dopo Petraeus ha dovuto dimettersi dal posto di direttore della Cia (a causa di una relazione extraconiugale)…
La versione della protesta contro il video amatoriale a danno del profeta Mohammed sembra una cartina fumogena per sviare l’attenzione su una faccenda poco chiara, di cui forse un giorno la storia ci rivelerà i contorni.
Fonte
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