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05/06/2016

La quiete di Draghi, prima della tempesta Brexit

La Bce si prepara a un’estate infuocata, ma prova a mostrare la solita tranquillità. Nella conferenza stampa di ieri non c’erano da comunicare notizie di grande rilevanza, almeno sul piano della politica monetaria.

Già la premessa circoscriveva tutto all’ordinaria amministrazione: siamo focalizzati sull’attuazione del pacchetto di stimoli annunciato a marzo. Quindi la tempistica: già elevati da 60 a 80 miliardi mensili gli acquisti di titoli sul mercato, che stanno per comprendere anche le emissioni di società private, entro fine mese la prima Tltro2 (asta di finanziamento per le banche, a tassi vantaggiosissimi ma a condizione che quei soldi vengano girati a imprese e famiglie, come prestiti capaci di accelerare un po’ una economia asfittica).

Nonostante la mole di soldi impegnata in oltre un anno di quantitative easing, però, la Bce è costretta a registrare la calma più piatta. La crescita è lentissima (la stima, rivisitata trimestralmente, sale in modo impercettibile (da 1,4 a 1,6%, nel 2016 e per tutta l’eurozona), mentre bisognerebbe gioire perché la dinamica dei prezzi ha smesso di accentuare la deflazione (da -0,2 a -0,1%). Qui, però, la Bce c’entra meno. È il prezzo del petrolio ad aver rimesso un briciolo di aumento dei prezzi nel circuito, visto che da gennaio ad oggi – zitto zitto – è cresciuto dell’80% (grande numero in percentuale, ma significa da 30 a 50 dollari al barile), restando peraltro lontanissimo dalle cifre di un paio di anni fa (stabilmente intorno a 100-110).

Insomma, piccoli aggiustamenti, niente di decisivo. A far salire la tensione c’è solo il rischio o l’opportunità “Brexit”, con l’appuntamento inglese del 23 giugno, quando si deciderà se la Gran Bretagna resterà dell’Unione Europea oppure no.

Pur non essendo nell’area euro, una rottura formale del meccanismo comunitario di questa consistenza avrebbe conseguenze economiche al momento imprevedibili (al di là degli allarmismi seminati dagli “europeisti” d’Albione), non quantificabili ma comunque di notevole entità.

“Siamo pronti per ogni risultato”, ha assicurato Draghi a quanti gli ponevano il problema. Non è ovviamente entrato nel merito delle misure da prendere in caso di vittoria del “sì”, se non altro per non renderle già ora inefficaci. Ma è certo che l’onda sollevata dalla nave inglese comporterebbe effetti a catena, non solo e forse neppure principalmente di tipo economico.

La costruzione dell’Unione si è infatti retta, fin qui, sulla “naturalezza” con cui procedeva l’allargamento della comunità, senza preoccuparsi troppo delle contraddizioni emergenti dall’assemblare in un unico mercato paesi con tassi di sviluppo e di produttività molto differenti. L’uscita di un paese-chiave, anche se euroscettico da sempre, sarebbe la prima volta in assoluto. Se ricordate quanto ci si era preoccupati per la possibile uscita della Grecia, un anno fa, dovrebbe essere intuitivo soppesare l’impatto complessivo di una “Brexit”.

Senza neanche prendere in esame l’ingovernabilità della Spagna, altro paese di peso che torna alle urne pochi giorni dopo e a sei mesi dalle precedenti elezioni, il clima nelle “istituzioni” sovranazionali si va riscaldando rapidamente. E non sembra temperato da personaggi come Jeroen Dijsselbloem, capo dell’Eurogruppo, secondo cui “troppa flessibilità rende l’Europa meno credibile” (calcio negli stinchi a Jean-Claude Juncker per i margini concessi, tra l’altro, all’Italia), e che vorrebbe un comportamento più omogeneo nei rapporti tra istituzioni sovranazionali e i diversi paesi: «Credo che se la Commissione è severa con i piccoli paesi e non lo è con i grandi, l’effetto può essere devastante. Io non posso dire al mio Parlamento che dobbiamo rispettare le regole quando loro possono rispondere “perché noi sì, e gli altri no?”. E’ questo ciò che ci minaccia».

Discorso astrattamente inappuntabile, ma politicamente morto all’atto stesso della fondazione dell’Ue. Chi può dire oggi alla Germania cosa fare e cosa no? La stessa Francia, una volta costretta a “fare come l’Italia e la Grecia”, in materia di mercato del lavoro, si sta rivelando difficile da ricondurre alle regole del liberismo sfrenato.

L’unica speranza che può nutrire Draghi, in questo momento, è che la Brexit non ci sia e che, contemporaneamente, la Federal Reserve statunitense alzi i tassi di interesse. Avrebbe in quel caso un problema sistemico in meno e un vantaggio monetario in più, con l’euro che andrebbe svalutandosi rispetto al dollaro, favorendo i settori che possono esportare.

Lo scenario opposto, ovviamente, è da incubo.

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