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02/03/2022

Il nuovo disordine mondiale /2: Tamburi di guerra

di Jack Orlando

Il primo proiettile sparato da un tank di Mosca, non ha colpito il suolo d’Ucraina, o un suo soldato, ma è andato a impattare dritto contro la supponente quanto ingenua arroganza dell’Occidente nel credersi il padrone del mondo.

Ha mandato in frantumi quella certezza della NATO che nessuno, al di fuori di essa, può permettersi il lusso di invadere un paese sovrano e ridisegnarne gli scopi. La fine di quella certezza ha lasciato posto prima al panico, subito dopo al livore e ha messo in moto un ingranaggio pericoloso, alimentato a piombo e mania di onnipotenza.

Un intero mondo di musi gialli, di sporchi arabi, di dannati negri sta guardando il terribile sovrano occidentale schiaffeggiato sulla soglia di casa. Il rischio che i tremori europei si propaghino oltre il Vecchio Continente, decretando la fine definitiva del sistema-mondo a egemonia atlantica e dando il via a nuovi tentativi di disgregare l’ordine, è un rischio reale e gli amministratori della potenza occidentale non possono in alcun modo permetterlo.

Una vittoria della Russia, non sarebbe solo una sconfitta in Ucraina, sarebbe la fine di un primato di potenza e l’inizio di un mondo che sfugge dalle mani occidentali.

È per questo che si continua a ripetere ossessivamente “Putin deve fallire”. È una questione di vita o di morte o, quanto meno, di irreversibile declino.

E non è diverso per il capo del Cremlino, ora che ha imboccato una via a senso unico contendendo alla NATO il monopolio dell’espansione imperialista: le alternative sono tra una vittoria militare con un conseguente (quanto difficoltoso ad oggi) cambio di status del paese invaso o di un compromesso vincente, oppure di un tragico tracollo per la Russia, ridimensionata definitivamente nel suo ruolo di potenza e relegata, bene che vada, ad un ruolo di subordine nello schema globale.

Gli attriti in moto da ormai lungo tempo sono arrivati ad un punto di frizione drammatico e l’unico punto che si può dare per assodato è l’aprirsi di una fase di instabilità profonda dagli esiti difficilmente prevedibili.

I colloqui di pace appena iniziati[1] sembrano aprirsi sotto pessimi auspici, tra due forze che cercano di mostrarsi in posizione di supremazia ma entrambe infelicemente fragili.

Gli ucraini cercano di far valere l’inaspettata resistenza messa in atto e il supporto dei partner occidentali ma con una condizione sul campo assai difficile dove le possibilità di conflitto si riducono alla battaglia urbana casa per casa con un costo umano e materiale enorme; i russi si fanno forza di una potenza di fuoco decisamente superiore per quanto non ancora schiacciante, ma iniziano a dissimulare con difficoltà il pericoloso isolamento in cui versano.

Una impasse in cui NATO e UE si sono inseriti aggravando la situazione e rischiando di far deflagrare del tutto la situazione.

Nelle scorse settimane era stato il presidente Biden a tenere alta la tensione alimentando una isteria mediatica sull’invasione russa, cui però non faceva effettivamente eco una Unione Europea molto più prudente nel mettere a rischio sé stessa. Una mossa che ben oltre la deterrenza verso la Russia puntava a stringere di nuovo e con più forza a sé i vassalli europei e freddarne le spinte verso una politica comune e indipendente da quella americana, costringendoli in sostanza a inseguire le accelerazioni imposte al dibattito dalla Casa Bianca.

È sulla spinta di Biden che l’UE si è decisa sulle sanzioni, escludendo però sulle prime una risposta più massiccia e sempre sulla spinta di Biden si è superata quella soglia e ci si è spinti a sanzioni più drastiche fino all’esclusione dal sistema SWIFT e all’accettazione passiva delle ricadute economiche sugli stessi paesi europei. Ancora nel segno americano ci si è spinti alla chiusura dello spazio aereo, allo spostamento di truppe ad est, all’erogazione di un fiume di capitali al governo ucraino per finanziarne la difesa e ci si è impegnati nel fornire armi, munizioni e perfino aerei da combattimento (verrebbe qui da chiedersi, a questo punto, se questi caccia opereranno da aereoporti ucraini, i pochi rimasti agibili o non in mano ai russi, oppure da un paese terzo, e se alla guida ci sarà un pilota ucraino o meno).

Putin deve fallire. Questo è il motto su cui si sono serrati i ranghi, e lo si continua ad abbaiare con la bava alla bocca a favore di ogni telecamera.

Fintanto che pareva una guerra lampo, destinata a consumarsi in una manciata di ore con un imbarazzante ma tutto sommato accettabile nuovo assetto geopolitico del continente, si era restii ad andare oltre la minaccia; ora che i carri russi hanno rallentato la loro avanzata, impantanandosi nel fuoco e nel fango, l’Occidente riprende coraggio e si spinge in avanti.

Così avanti da dare luogo a scivoloni rischiosi, dalla Von Der Leyen che dichiara “L’ucraina fa parte dell’Europa e la vogliamo con noi” al cancelliere Scholz che alza vertiginosamente e di colpo la spesa militare del suo paese, alla rottura di storiche neutralità nazionali, fino al sostanziale accoglimento della chiamata alle armi di Zelensky che punta alla costruzione di una legione di combattenti internazionali.

Lettonia, Danimarca e Gran Bretagna sono le prime ad aderire, non saranno le ultime, mentre già emergono voci circa un gruppo di veterani tedeschi e inglesi preparati in Polonia da militari americani, pronti per combattere sotto bandiera gialloblu.

La guerra si sta già allargando. E nelle parole dei capi di Stato, la Pax Europaea è già bella che morta, forse addirittura solo una pia illusione del passato. La spinta in avanti ha luogo su un terreno scosceso e instabile, meno di una settimana fa si tentennava sulle sanzioni, oggi si mettono in campo armi e combattenti irregolari e si richiamano in patria i connazionali sul suolo russo.

Putin deve fallire. Ma non lascerà il campo con la coda tra le gambe, lo dimostra l’azzardo sulla messa in allerta del sistema di deterrenza nucleare, mossa che non rimarrà senza risposta.

L’ingranaggio della guerra imperialista si è messo in moto ed è improbabile che si fermi, perché nessun pretendente può più abbandonare il tavolo, a costo di restarci secco lui e tutti gli altri.

Noi, ancora una volta, siamo in ritardo sul nostro tempo. E questo è forse il dato più scontato e drammatico di tutti, che segna l’assenza totale dell’unica forza in grado di sabotare l’ingranaggio bellico: la forza del conflitto sociale organizzato. L’incapacità, o peggio il disinteresse, trascinatisi per anni, verso la costruzione di una strategia e una organizzazione delle possibili avanguardie antagoniste in grado di fronteggiare i dispositivi politici del capitale, ci mette in condizione oggi di subire passivamente questo nuovo fatale passaggio di fase.

Dal primo giorno delle ostilità si è osservato il fiorire delle mobilitazioni per la pace un po’ ovunque, un sussulto della ormai sopita società civile. Ma, a tagliare con l’accetta, sono due le tensioni che si esprimono in modo forte nelle piazze e che vengono contemporaneamente alimentate e rimbalzate dai media: nazionalismo e umanitarismo. Entrambe vanno sovvertite.

Sul nazionalismo c’è poco da discutere: tutto l’arsenale retorico diffuso a piene mani a mezzo stampa sulla difesa della civiltà europea, sulla resistenza all’invasore, la Patria in pericolo e della Fortezza Europa, nonché della mitopoiesi in atto rispetto alla resistenza ucraina (sì, animata anche da cittadini di ogni tipo e da un genuino slancio di coraggio, ma politicamente e militarmente egemonizzata da formazioni fascisteggianti e spesso apertamente naziste); va in direzione di una richiesta esplicita di un intervento NATO e/o di una adesione alla missione bellica con un largo coinvolgimento di possibili volontari per la chiamata alle armi di cui sopra; l’evergreen dello scontro di civiltà sembra aver perso il suo connotato etnico/religioso per adattarsi al profilo caucasico. È una tendenza che porterà ad un rinnovamento delle posizioni e strutture della destra, ad un compattamento collettivo attorno alla ragion di Stato e che costituirà un ovvio e potente carburante per le prossime spinte belliciste; un nemico di cui occorrerà tenere conto.

Sull’umanitarismo invece è necessario soffermarsi un momento in più: perché è una trappola in cui molto serenamente si spingono anche non pochi presunti rivoluzionari, perché è la posizione della borghesia progressista che ha le leve del comando, perché è in grado di legarsi tanto a un nerbo nazionalista quanto a un melenso democraticismo dei diritti umani.

È necessario ricordare, specialmente a quegli imbecilli che dicono “è tornata la guerra”, che la difesa dei diritti umani e della democrazia è stato il grido di battaglia con cui l’Occidente ha bombardato, bruciato, ucciso, torturato e umiliato milioni di persone, non cento anni fa, ma praticamente ogni giorno degli ultimi ottant’anni.

Ogni volta in difesa della vita umana, si è corsi a mettere a ferro e fuoco case di civili e rovesciare governi, passando come cavallette e lasciando distruzione e morte. Lo si chieda in giro a Belgrado, a Tripoli, Kabul, a Baghdad o a Damasco, tanto per restare a un tiro di schioppo da casa e non sfogliare troppo l’album dei ricordi.

E ogni volta il popolo della sinistra, i cui rappresentanti benedicevano la crociata di turno, tirava fuori la bandiera della pace e si dichiarava contro la guerra, ma con una certa attenzione a sottolineare anche la propria distanza dal mostro, dal tiranno di turno da cui comunque bisognava salvare il malaugurato popolo finito nel mirino della democrazia.

Una equidistanza ipocrita e criminale che lava la coscienza delle anime democratiche e lascia che siano gli altri a contarsi i morti; che si compiace, in fondo, di aver portato un po’ di civiltà moderna ai popoli arcaici e poco importa se nessuno di quegli zotici provasse un qualche minimo interesse verso la nostra democrazia.

Oggi la difesa della vita umana e della civiltà democratica è ancora in mano alla NATO. Ed è su questo liso copione che si sta preparando la prossima guerra. Con la differenza, che a finire con le bombe sulla testa, potrebbero esserci gli stessi europei per primi.

Le attuali manifestazioni per la pace che attraversano l’Europa tutta, o si riescono ad articolare contro i mandanti di questa pace e di queste guerre, contro il modo di produzione che le sottende ed alimenta, oppure finiranno per esserne complici.

Condannare la guerra di Putin nelle piazze russe significa attaccare quella forma del potere e i suoi diretti mandanti, significa essere contro la guerra e il sistema che la genera, offrire a sé stessi uno spazio di ribaltamento. Condannarla da noi e limitarsi allo sventolare la bandiera della pace non solo non salva alcuna vita, ma significa accodarsi alle nostre borghesie criminali, per la quale anche le cosiddette misure economiche hanno un sapore esplicitamente offensivo e perverso: umiliare la Russia-paese bandendola da ogni piattaforma, evento o manifestazione culturale per annichilirla, sanzionarne selvaggiamente l’economia per metterla in ginocchio, per portarne la popolazione alla fame. Violenza estrema si, ma politically correct.

Vogliamo essere più chiari: ogni umanitarismo adesso è un surrogato dell’atlantismo, ergo una complicità nella preparazione della guerra ventura; un crimine che non ci si può permettere. Si parte ancora una volta da una posizione di debolezza, ma non si può deflettere da questo punto.

Quello su cui è inderogabile concentrare l’attenzione è ancora una volta l’opposizione alla NATO, in quanto strumento di comando statunitense sulla agenda politica dei nostri paesi e in quanto generatore di sciagure molto più che di sicurezze. Specialmente l’Italia, all’interno dello schema atlantico finisce per essere poco più che una colonia e poco meno che uno scudo dell’interesse americano.

Non a caso, oggi la classe dirigente italiana ha anteposto una sconquassata agenda bellica al suo stesso interesse nazionale e domani chiederà a noi di pagarne il conto, con un tributo di lacrime e sangue sul terreno dell’economia e magari anche su quello di battaglia; e non fanno alcuna eccezione gli altri paesi europei, tirati per la giacca in questa spirale.

La critica oggi dobbiamo basarla sulle ricadute, immediate e di medio termine, di questa politica kamikaze. Opporsi alle misure delle sanzioni e della proliferazione delle armi che, lungi dallo stemperare il conflitto, hanno portato a paventare un olocausto nucleare.

Iniziare da questo, individuando ed evidenziando i nostri nemici diretti, e prepararsi ad affrontare lo scontro interno, quando le ricadute arriveranno sul serio con ulteriori aumenti delle materie prime e delle risorse energetiche, traducibili con l’inasprimento ulteriore del carovita, coi fallimenti delle imprese e i licenziamenti, con l’acuirsi di una condizione invivibile. Opporsi alla guerra vuol dire, immediatamente, opporsi agli interessi del capitale nella loro dimensione local-nazionale.

E questo andrà fatto tenendo conto della dimensione continentale del fenomeno: mai come ora è stato necessario e fertile stabilire una connessione con i movimenti dei paesi vicini, articolare una strategia anticapitalista ed antimilitarista transnazionale è il presupposto non solo per avere una possibilità di influire sugli eventi attuali ma, in prospettiva, per arrivare alla possibilità di deviarne il corso.

Al cementarsi dei blocchi imperialisti va contrapposta la costruzione di un blocco sociale antagonista e internazionale, alla loro tensione alla guerra va risposto con una ritrovata conflittualità sociale.

Quali che siano i rivolgimenti sul terreno ucraino nei prossimi giorni, anche scampando al rischio di una nuova guerra mondiale, è certo l’aprirsi di una stagione di instabilità sistemica ad ogni livello; quasi esattamente due anni fa, al sorgere della pandemia, da queste stesse pagine (qui) scrivevamo che la regola del momento è saper abitare la catastrofe per coglierne il campo delle possibilità. Oggi sentiamo forte l’urgenza di confermarlo.

(2 – continua)

Note

1) È bene specificare, dato il rapido evolversi delle cose, che queste righe sono state scritte a un paio d’ore dall’inizio dei negoziati tra Ucraina e Russia in quel del confine con la Bielorussia.

Fonte

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