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03/03/2022

Ora in Ucraina si giocano gli equilibri del mondo

Fino a poche settimane, o addirittura fino a pochi giorni fa, la Russia appariva ancora disposta al negoziato e restia a ricorrere all’uso della forza. Persino la popolazione di Donetsk e Lugansk come quella di gran parte dell’Ucraina stentava a credere ad un epilogo di questo genere: un epilogo che costituisce forse il picco massimo di conflittualità conseguente al disfacimento dell’Unione Sovietica.

La presa di posizione con cui lunedì 21 febbraio Vladimir Putin si è rivolto alla nazione – e al mondo – riconoscendo ufficialmente le Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk ha scritto una pagina della storia del nostro tempo. Oltre ad annunciare quello che si sta consumando in queste ore, la decisione del Cremlino ha implicazioni molto più ampie e profonde della questione ucraina in quanto tale o della contingenza specifica.

Sin dal 2015 Mosca aveva rinunciato ad ogni forzatura rispetto al Donbass, considerando ufficialmente territorio ucraino il territorio sotto controllo degli insorti, ossia sotto il proprio indiretto ed ufficioso controllo.

Ma sopratutto, considerando la questione ucraina una questione sulla quale sarebbe stato possibile mediare e trovare un accordo effettivo con gli Stati Uniti: in decine di vertici bilaterali e multilaterali Mosca ha rimarcato la centralità degli accordi di Minsk, accordi che avrebbero previsto il riconoscimento di una larghissima autonomia a Donetsk e Lugansk, oltre ad una demilitarizzazione mai realmente avvenuta.

Il massimo obiettivo raggiunto dagli accordi di Minsk è stato invece quello di congelare almeno in parte il conflitto, pur non impedendogli di proseguire con un prezzo altissimo per la popolazione della regione: almeno quattordicimila sono state le vittime complessive di questo conflitto sin dal suo inizio nel 2014.

Vittime a cui si dovranno sommare quelle di questa nuova fase.

L’intervento in Ucraina costituisce la controffensiva strategica del Cremlino rispetto alla lunga strategia di allargamento della NATO verso est. Così come i civili ucraini fanno oggi i conti con le conseguenze dell’intervento militare di Mosca, per otto lunghi anni i civili del Donbass hanno fatto le spese del conflitto.

La strategia militare di Mosca sembra almeno per il momento aver del tutto escluso la possibilità di bombardamenti aerei a tappeto sulle aree urbane.

Alcune timide speranze riposte da Mosca negli scorsi anni nell’elezione di Donald Trump e di Volodymyr Zelensky si sono rivelate vane: eletto da un voto di protesta contro la politica portata avanti da Poroshenko – l’oligarca che lo ha preceduto dopo la destituzione di Yanukovich – Zelensky ha presto abbandonato una politica di dialogo e mediazione facendo propria la retorica bellicista antirussa.

Dire che gli accordi di Minsk appartengono al passato, è oggi fin troppo banale. Il mancato riconoscimento della più elementare legittimità politica agli insorti del Donbass da parte di Kiev, degli Stati Uniti e dei paesi dell’Europa occidentale ha determinato quei presupposti che hanno portato al loro affossamento.

Nei primi mesi del 2014 l’Occidente ha dato sostegno al colpo di stato che ha costretto l’allora presidente Yanukovich a dimettersi e fuggire dal paese. Per sette lunghi anni – ossia dalla firma di Minsk II – l’Europa occidentale ha avuto la possibilità di costruire con Mosca un accordo reale riguardo il problema ucraino: per immaginare una soluzione possibile e concreta, sarebbe stato sufficiente ricordarsi delle promesse fatte da George Bush e Bill Clinton a Mikhail Gorbacev e Boris Eltsin.

Molteplici erano state infatti le promesse che assicuravano che la NATO non si sarebbe in alcun modo ed in nessun caso allargata verso oriente.

Sulla base di questo presupposto, l’Ucraina avrebbe potuto seguire l’esempio kazako, o quello finlandese: coltivare la propria indipendenza e godere dei vantaggi di un paese “di mezzo”, ponte e cerniera tra Occidente ed Oriente.

Aver preservato e modernizzato l’enorme potenziale minerario, energetico ed industriale lasciato in dote dall’Unione Sovietica, avrebbe offerto all’Ucraina importanti possibilità: difficilmente, l’Ucraina, si sarebbe ridotta ad essere il paese più povero dell’intera Europa continentale.

Così, purtroppo non è stato: sia per gli interessi oligarchici che hanno dominato il paese in questi trent’anni che per la concezione dell’Ucraina fatta propria soprattutto Washington e Londra sin dal collasso dell’Unione Sovietica.

L’Ucraina avrebbe potuto valorizzare la propria natura di paese multietnico, multilinguistico, multireligioso: sin dal Maidan del 2014 l’Occidente a guida statunitense ha sostenuto con ogni mezzo l’esasperazione identitaria dell’Ucraina, contribuendo a snaturare il profilo culturale del paese e gettare le basi ideologiche della guerra civile trascinatasi fino ad oggi.

Tra le responsabilità occidentali, c’è anche quella, tutt’altro che trascurabile, di aver reso quello ucraino il principale movimento neofascista europeo per forza e potenziale.

A lungo sorniona rispetto al conflitto in Donbass, prima di intervenire militarmente in Ucraina la Russia ha palesato le divisioni in seno allo schieramento atlantico: dialoganti ma inconcludenti Germania, Francia, e purtroppo anche Italia, almeno fino ad oggi. Oltranzisti – quanto lontani dalla guerra – Stati Uniti e Gran Bretagna.

Il Cremlino sembra aver calcolato attentamente i costi di questa scelta, tutt’altro che priva di conseguenze: la Federazione Russa pagherà infatti un prezzo elevato per la sua azione. È evidente come nel ragionamento del Cremlino siano stati valutati i risvolti di un potenziale ingresso a pieno titolo dell’Ucraina nella NATO: risvolti evidentemente peggiori, per Mosca, di quelli che un’operazione militare come quella in corso è destinata a portare con sé.

La scelta è stata evidentemente concordata con l’alleato cinese: si rincorrono, intanto, notizie relative ad attività militari cinesi verso Taiwan oltre che dichiarazioni piuttosto energiche da parte dei vertici cinesi.

Le conseguenze di quanto avviene in queste ore dovranno essere soppesate nel tempo, tenendo presente la possibilità di un allargamento regionale del conflitto. Oltre agli strascichi di guerriglia antirussa, con questo intervento militare la Federazione russa, si espone al concreto rischio di terrorismo e di attacchi asimmetrici in tutti in teatri in cui è presente.

La possibilità di una crisi energetica senza precedenti per l’Europa occidentale è dietro l’angolo. Più remota, ma apocalittica, quella di una guerra nucleare.

Le mediazioni ed i compromessi possibili nella vecchia Ucraina diventano oggi impensabili: il Cremlino è prossimo ad avere in mano il controllo strategico di buona parte del paese, se non della sua totalità.

Vari paesi dell’Unione Europea hanno annunciato la propria disponibilità ad accogliere Volodymyr Zelensky, lasciando poco spazio all’immaginazione per quello che riguarda gli sviluppi del suo ruolo politico.

Una volta all’estero, Volodymyr Zelensky potrebbe venire considerato dallo schieramento atlantico come “presidente legittimo” nell’intento di delegittimare la pax Russis in Ucraina: quanto già fatto, con le dovute differenze del caso, con Svetlana Tikhanovskaya in Bielorussia.

Molte sono in queste ore le voci che comprensibilmente parlano di pace: meno numerose sono quelle che ricordano che non esiste alcuna pace senza una comprensione reciproca e il presupposto della comune volontà delle parti, mancata fino ad oggi.

La neutralità dell’Ucraina avrebbe scongiurato l’attuale scenario. Mentre nessuno dei paesi dello schieramento atlantico sembra disposto a “morire per Kiev”, Volodymyr Zelensky avrebbe potuto già da giorni prendersi la responsabilità di firmare la capitolazione, evitando così nuovi bagni di sangue.

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