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11/02/2024

La giungla contro il giardino. A proposito di “La guerra capitalista”

1) Mi sembra doveroso partire dalla preoccupata constatazione di Papa Bergoglio, espressa il 10.3.2023 in occasione del decimo anniversario del suo pontificato, che «in poco più di cent’anni ci sono state tre guerre mondali: 1914-1918, 1939-1945, e la nostra; che è anch’essa una guerra mondiale. È cominciata a pezzetti ma adesso nessuno può dire che non è mondiale. Le grandi potenze vi sono tutte invischiate. Il campo di battaglia è l’Ucraina, ma lì lottano tutti».

E bravo il nostro Papa nel riconoscere che la guerra russo-ucraina non è affatto “locale”, come quelle precedenti in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Siria o Libia, bensì planetaria!

Però bisognerebbe sforzarsi di indicare anche in maniera esplicita quali sono le effettive parti in lotta, che solo superficialmente sono la Russia e l’Ucraina. Infatti, tutti sappiamo che dietro l’Ucraina c’è la NATO a guida americana con l’Unione Europea al traino e che la Russia di Putin, nell’immaginario occidentale, altro non è se non la prosecuzione di quella Unione Sovietica che aveva dato del filo da torcere agli Stati Uniti lungo tutto il periodo della c.d. “guerra fredda”.

Per questo il conflitto in corso è “mondiale”, potendosi anche considerare come quel “finale caldo di partita” che finora era stato scansato per la minaccia di Mutua Distruzione Atomica Assicurata, ma che adesso potrebbe anche non essere più evitabile.

Proprio per questo gli Stati Uniti ci vanno dentro con mano leggera senza inviare “scarponi sul terreno” (come hanno fatto in Vietnam, Afghanistan e Iraq) e senza applicare la “no fly zone” (come nel caso della Serbia e della Libia) per il pericolo che Putin finisca per utilizzare (come ha minacciato), se aggredito sul territorio nazionale, anche armi atomiche “tattiche”, dove però non si sa bene dove il “tattico” finisca.

Così Biden, che ha riportato a casa i soldati americani dall’Afghanistan, non sembra avere nessuna voglia di passare alla storia come il presidente che ha fatto entrare gli USA nella Terza guerra mondiale, ben consapevole (come ha detto in televisione il 10 febbraio 2022) che «se russi e americani iniziano a spararsi addosso, quella è una guerra mondiale» (cit. in “Limes“, 2022, n. 2).

Comunque anch’io mi ero accontentato di una simile interpretazione delle forze in campo in chiave, per così dire, “geopolitica”, finché non ho avuto modo di leggere il libro di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista (Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2022) che mi ha costretto ad adottare una diversa linea d’interpretazione che qui non posso far altro che riportare (con qualche aggiunta in più, mi auguro).

Considero infatti questo libro meritevole della più grande attenzione, anche se lo ritengo malfatto perché “assemblato” con scritti e interviste già pubblicati ed incollati insieme e non invece “pensato” dall’inizio alla fine, così che gli argomenti si rincorrono e si ripetono pure ed un tema decisivo come quello delle sanzioni economiche sì trova inaspettatamente relegato in appendice!

Purtuttavia in interventi successivi gli autori hanno precisato la loro interpretazione come se progressivamente avessero preso consapevolezza della importanza della loro tesi sulle forze effettive che spingono alla guerra in corso.

2) Il ragionamento di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli procede secondo linee rigorosamente en marxiste, dato che «oggi, più che in passato, il capitale si trova costretto ad interrogarsi su sé stesso, sulla sua potenza e sulla sua stessa fragilità riproduttiva e così cade nella tentazione di riflettersi nell’impietoso specchio analitico marxiano».

In particolare, viene riesumato il grande tema della “centralizzazione del capitale“ che, a differenza della “concentrazione“ che si verifica quando si reinvestono i profitti dentro l’impresa, si presenta quando un capitale più grosso ingloba (Marx parla più esattamente di «esproprio») un capitale più piccolo.

I motori di questa centralizzazione sono per Marx la «lotta della concorrenza che vede prevalere i capitali più grossi» ed il sistema del credito che consente ai capitali che vi hanno accesso di presentarsi sul mercato con una “potenza di fuoco” superiore a quella dei capitali ai quali, per varie ragioni, il credito è lesinato, se non addirittura negato, così che il credito finisce per operare come «un immane meccanismo sociale per la centralizzazione dei capitali» (per questo la politica monetaria del banchiere centrale è decisiva per il suo andamento, come poi si dirà).

Di questa centralizzazione dei capitali nel libro si tenta addirittura una quantificazione empirica con la tecnica del network control sulla quale non mi pronuncio ma di cui raccolgo il risultato: che ormai nel mondo non ci sono che “oligarchi” se l’80% dei ricavi operativi delle società transnazionali è nelle mani (ma meglio sarebbe dire: nelle tasche) di «appena 737 azionisti a livello mondiale» (p. 107) e sebbene siano gli oligarchi russi a godere della peggior fama, ce ne sono anche cinesi, arabi, inglesi e americani, così che «se noi parliamo tanto di oligarchi vicini al Cremlino, tecnicamente parlando il capitalismo americano è il più oligarchico di tutti».

Al proposito consiglio di leggere Giga-capitalisti di Riccardo Staglianò (Einaudi, 2022) dove si narrano le “fortune”, come è proprio il caso di dire, di quattro oligarchi come Bill Gates, Jeff Bezos, Elon Musk e Mark Zuckerberg, che però oligarchi non si possono dire solo perché sono “made in USA“!

Comunque, la tesi più importante del libro, che è anche la più politicamente intrigante, sta nel fatto che, come detto nella introduzione, se dopo la fine della guerra fredda il mondo si era ritrovato miracolosamente “tutto uno” come era stato all’inizio del XX secolo, ed a guida esclusivamente americana (da cui quell’Impero immaginato da Hardt e Negri nel 2001), lo sviluppo successivo della globalizzazione dei mercati e dei capitali lo ha riportato a trovarsi nuovamente “due” dove «da un lato c’è il vecchio blocco imperialista definibile “dei debitori”, a guida americana e anglosassone e con l’Europa al traino impegnati a difendere una infiacchita egemonia con tutti i mezzi possibili..., mentre dall’altro c’è un emergente blocco imperialista “dei creditori” a guida cinese, che, coinvolge russi e vari asiatici e registra una indubbia fase di ascesa» (p. 11).

Come si siano formati questi due “blocchi imperialisti” del debito e del credito nel libro non è detto, ma è facile dimostrarlo: è stata la conseguenza avvelenata dello straordinario sviluppo dello scambio internazionale di merci dovuta, ben più che alla scomparsa dell’URSS nel 1991, all’ingresso della Cina, che pure era rimasta “comunista”, nella Organizzazione Internazionale del Commercio (WTO) nel 2001, che ne ha esaltato la capacità di esportazione di manufatti prodotti in massa e a costi stracciati in patria.

Vigenti le regole del libero scambio gli Stati Uniti sono stati letteralmente inondati dalle importazioni “made in China”, finendo per ritrovarsi con un disavanzo commerciale che hanno saldato nella loro moneta (il dollaro, che è il denaro universale perché accettato da tutti), che però la Cina non ha trattenuto presso di sé in forma liquida, ma ha restituito agli USA in cambio dei loro titoli di credito, sia pubblici che privati, perché fruttavano dividendi e interessi.

È stato così che alla fine gli Stati Uniti sono diventati, oltre che importatori netti di merci, anche debitori di capitali, mentre la Cina, che esportava merci, è diventata creditrice di capitali.

Né il fenomeno è rimasto confinato ai manufatti, perché anche materie prime come il gas e il petrolio sono oggetto di commercio internazionale, così che pure i paesi arabi e la Russia sono diventati esportatori netti, soprattutto verso la neonata Unione Europea che è priva di fonti energetiche, e con quel loro avanzo commerciale hanno acquistato titoli di credito privati e pubblici in euro o in dollari, diventando pure a loro volta creditori di capitali.

È quasi un teorema: i paesi che sono esportatori al netto di merci finiscono per essere creditori, mentre quelli che importano al netto si riducono a debitori.

Una tabella in fondo al volume (ma perché solo a p. 233 e appena prima dei “Ringraziamenti“?) elenca le singole posizioni finanziarie nazionali sull’estero per l’anno 2021, da cui risulta che sono a debito gli Stati Uniti per l’iperbolica cifra di 18.124 miliardi di dollari, con al seguito Gran Bretagna, Australia, Messico e Brasile, mentre a credito ci stanno Cina, Giappone, Canada, Arabia Saudita e Russia.

L’Unione Europea come tale non c’è, non avendo una posizione finanziaria unica sull’estero, ma da altra fonte (A. Iero, Usa vs. Russia (e Cina): debito di guerra o guerra del debito?, “Econopoly“, 6 giugno 2022) apprendo che la Germania è a credito insieme a Olanda, Belgio, Danimarca, Svezia e (nel suo piccolo) l’Italia, mentre a debito ci sono Francia, Spagna, Irlanda, Grecia, Polonia e Portogallo. E con questo le squadre in campo sono riconosciute.

3) La competizione tra questi due capitalismi del credito e del debito è determinata anche, come s’è accennato, dalle decisioni monetarie delle banche centrali, della Federal Reserve soprattutto a cui gli altri banchieri centrali non possono, prima o poi, che adeguarsi.

E la FED si affida per le decisioni da prendere sul tasso d’interesse ad una formula algebrica “oggettiva” (che è detta “regola di Taylor” dal nome dell’economista che per primo l’ha formulata nel 1993) che collega il tasso d’interesse nominale alla variazione del livello dei prezzi (inflation gap) per il tramite del rapporto del reddito effettivo su quello potenziale (output gap).

Al di là del tecnicismo ne segue che in caso d’inflazione la FED deve alzare il tasso d’interesse ed abbassarlo invece in caso di deflazione. Ma tutto questo non era già noto? Certo che sì, solo che adesso lo decide un algoritmo e non la volontà politica, pur sempre soggettiva, del banchiere centrale di turno.

Peccato però che questa fenomenale “regola di Taylor” non operi soltanto sui prezzi. Se infatti nel caso d’inflazione l’aumento del tasso d’interesse riduce gli investimenti a venire perché li rende più costosi, e quindi comprime l’occupazione, i salari, i consumi ed infine la domanda effettiva così che i prezzi calano, quello stesso aumento del tasso d’interesse fa però diminuire anche il valore attuale dei capitali già investiti che, per una semplice formula di matematica finanziaria, si determina sulla base dai loro rendimenti futuri scontati per il tasso d’interesse corrente così che, se quest’ultimo aumenta, il loro valore al presente diminuisce (a meno che non si prevedano aumenti dei rendimenti che restano comunque futuri e incerti).

È questa la maggior critica che proprio Brancaccio, insieme a Giuseppe Fontana, ha mosso alla “regola di Taylor” opponendole invece un “principio di solvibilità” in un saggio importante (Solvency rule versus Taylor Rule, in “Cambridge Journal of Economics“, 2013) che non ha ricevuto adeguata attenzione.

Ma proviamo a spiegarci: alla verifica dei fatti la “regola di Taylor” più che sui prezzi a venire agisce sulla solidità finanziaria (possiamo chiamarla “resilienza”?) dei capitali in essere, mettendo in difficoltà quelli che in prospettiva avranno peggiori rendimenti ed indebolendoli fino al punto del fallimento oppure di essere “scalabili” da parte di capitali più forti.

Ecco perché il banchiere centrale con la sua manovra sul tasso d’interesse si ritrova a «governare la solvibilità che regola la conflittualità tra i capitali e con essa il ritmo della centralizzazione» (p. 87), che altro non è se non la conseguenza dell’«inesorabile conflitto interno alla classe capitalista tra i capitali a rischio d’insolvenza e acquisizione che lottano per la sopravvivenza e i capitali forti e solvibili che dalla centralizzazione trovano sempre maggior forza e potere» (p. 79-80).

Ma c’è anche di peggio perché «questa lettura innovativa del ruolo della banche centrali si applica non solo ai capitali che costituiscono le banche e le imprese private, ma pure agli Stati nazionali e ai movimenti di capitale internazionali, (così) che il banchiere centrale finisce per operare anche come “regolatore” di un conflitto tra Stati sovrani» (p. 87) facendo così trapassare la geopolitica, che oggi va tanto di moda, in geoeconomia che invece non va ancora di moda.

Ma la Federal Reserve è consapevole di tutto questo? Sembrerebbe di sì se dopo la grande crisi del 2009-2010, e per diversi anni, ha fatto l’interesse del capitale “a debito” americano adottando una politica monetaria più che accomodante spinta fino all’estremo di un tasso d’interesse prossimo allo zero pur di alleggerire il suo rischio di insolvenza, e, ciò nonostante, le proteste dei risparmiatori, sia nazionali che esteri, che non si vedevano remunerare a sufficienza i loro investimenti.

Una simile manovra monetaria è però alla lunga controproducente perché “surriscalda” i prezzi, e quando questi si sono palesemente innalzati, ha ripreso piede la “regola di Taylor” ed il tasso d’interesse è stato aumentato a partire dal 2016 (vedi T. Iero, Banche centrali, tassi di interesse e inflazione, “Maggio filosofico”, marzo 2023), facendo precipitare i capitali “a debito” lungo la china dell’insolvenza, dei fallimenti e dei salvataggi da parte di qualche “cavaliere bianco” nazionale oppure straniero che, alla maniera di avvoltoi, non vedono l’ora di poter banchettare con la carcassa delle loro prede.

A difendere i propri capitali “a debito” che altro restava agli Stati Uniti se non riesumare quel vecchio e discusso strumento di difesa commerciale che sono i dazi all’importazione delle merci altrui?

Così a Davos nel 2017 è stato curioso vedere il presidente americano Trump proclamarsi protezionista a tutto campo, mentre il comunista presidente cinese Xi si ergeva a paladino del libero scambio, con uno sconvolgete scambio di ruoli!

Però il maggior pericolo per una solvibilità indebolita dall’aumento del tasso d’interesse, più che dalle merci sta nei movimenti di capitale rispetto ai quali i dazi non sono sufficienti. Ed ecco che ad essi si sono dovuti aggiungere le sanzioni e gli embarghi che impediscono i movimenti di denaro e addirittura di persone tra le nazioni che si considerano “indesiderate”.

Le sanzioni sono un severo provvedimento di guerra commerciale («guerra di banditi» secondo Carl Schmitt, rispetto alla «guerra di eroi» sui campi di battaglia) utilizzato per punire le violazioni alle norme economiche imposte da uno Stato ad un altro per piegarlo alla propria volontà e da tempo gli Stati Uniti le hanno applicate ai danni dei cosiddetti “Stati canaglia”, come la Corea del Nord, Cuba, il Venezuela, l’Iran e dal 2014 anche la Russia, e abusandone al punto (366 volte dal 1950 al 2019) che ormai ci sono data-base in rete ed anche un manuale di istruzione Threat and Imposition of Economic Sanctions (TIES) Data 4.0 del giugno 2013 per poterle riconoscere tutte (cfr. p. 201).

Ma nemmeno questo è bastato se il meccanismo sanzionatorio è stato esteso anche ai paesi terzi che intendessero commerciare con quelli “sanzionati” da Washington, giusta la nuova regola introdotta da Janet Yellen – segretario al Tesoro americano ma già presidente della Federal Reserve – del friend-shoring, che sta ad indicare che gli USA intenderanno fare affari soltanto con i «paesi fidati», che sono quelli «in sintonia con la nostra geopolitica»; e «sia chiaro che la coalizione serrata dei paesi sanzionatori non sarà indifferente alle azioni che minano le sanzioni che abbiano messo in atto» (p. 209) – come ha provato sulla propria pelle la Germania quando si è vista sabotare (quali che ne siano stati gli effettivi esecutori) due gasdotti Nord Stream che la rendevano “energeticamente” troppo dipendente dalla Russia “canaglia”.

4) È su questo scenario economico internazionale già intaccato dal «protezionismo dei debitori occidentali» (p. 12) che è precipitata l’aggressione militare russa all’Ucraina nel 2022.

Ma come interpretarla? Per gli autori del libro niente affatto come «una guerra per l’autodeterminazione di una regione o per la sovranità di una nazione, né per la denazificazione di un territorio o per la libertà di un popolo aggredito» (p. 11), ma piuttosto come «il simbolico compimento di una fase cominciata molto tempo addietro di de-globalizzazione già manifesta e di preparazione della guerra imperialista in senso stretto, una guerra che vede contrapposte non banalmente l’Ucraina e la Russia, ma più in generale i blocchi di Stati ruotanti intorno alle economie statunitense e cinese, rispettivamente debitrice e creditrice del mondo» (p. 200-201).

Si tratterebbe insomma di una guerra sintomatica di movimenti finanziari profondi che sarebbe «esplosa non semplicemente per conquistare territorio ma per stabilire le regole imperiali del futuro» (p. 12), e cioè per «la sopravvivenza o la cancellazione delle regole del circuito militar-monetario internazionale fino ad oggi continuamente scritte e riscritte a piacimento dai soli Stati Uniti e dai lori alleati e subite da tutti gli altri» (p. 154) e dalle potenziali conseguenze imprevedibili, proprio come fu la Serbia per la Grande Guerra o la Polonia per la Seconda guerra mondiale.

Ovviamente qui non si tratta di parteggiare per l’uno o l’altro dei due combattenti ed al proposito gli autori sono perentori: «assegnare all’imperialismo degli Stati Uniti e dei loro alleati il ruolo di baluardo delle libertà civili e politiche sta diventando semplicemente grottesco, così come cercare nella ferocia capitalistica della oligarchia russa tracce residue del grande assalto al cielo dell’Ottobre rosso è qualcosa di persino più inverecondo» (p. 14).

Qui si tratta di riconoscere le forze economiche impersonali che muovono alla “guerra capitalista” e provare a disinnescarle (vedi l’appello di Emiliano Brancaccio con Robert Skidelsky e altri, Le condizioni economiche della pace pubblicato dal “Financial Times” che si può leggere in italiano su “Econopoly“, 17.2.2023).

Restando io comunque consapevole, dopo Galilei, che le cose non sono mai come appaiono, che l’impressione di realtà può essere ingannevole e che il Sole non gira attorno alla Terra bensì viceversa.

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